La mia foto con Fabio Fognini al Foro Italico, dopo un suo allenamento in uno dei campi ground
– L’avvicinamento al tennis di Fabio Fognini ha inizio nel piccolo comune ligure di Arma di Taggia, in provincia di Imperia. Perché hai scelto il tennis e quali sono state le prime figure di riferimento che ti hanno avviato al nostro sport?
– Da piccolo giocavo a tennis, a calcio e sciavo molto bene, fin quando, a forza di andare al circolo con mio papà Fulvio che ne era il presidente, mi sono buttato a 12 anni definitivamente sul tennis, pensando di aver scelto il meglio.
– È necessario intraprendere un percorso fatto di tanti sacrifici e dedizione prima di accedere al professionismo. Avresti mai immaginato di diventare, un giorno, uno dei tennisti italiani più famosi?
– Ho perso tutta la mia adolescenza e ti devo dire che mi manca. Ho fatto i sacrifici che tutti i ragazzi compiono, sia che diventino numero 1 o numero 1000 del mondo.
L’esultanza di Fabio Fognini agli US Open
– Tutti ricordano le grandi partite che hai giocato, come le vittorie indimenticabili contro Rafael Nadal agli US Open, dove perdevi 2 set a 0, a Rio De Janeiro, a Barcellona e, soprattutto, in semifinale a Monte-Carlo, torneo Master 1000 che poi hai vinto, battendo in finale Dusan Lajovic. Anche le varie imprese in Coppa Davis: tra le tante, quella contro l’allora numero 1 del mondo Andy Murray, che hai sconfitto nettamente anche a Roma, oltre a Napoli con la maglia azzurra. Per conseguire questi risultati, è necessario un lavoro di qualità e di quantità che ti ha portato nel 2013, sotto la guida di José Perlas, fra i primi 20 giocatori del mondo. Quali sono state le vittorie più significative che ricordi con maggiore soddisfazione?
– La partita più bella l’ho giocata in Coppa Davis contro Andy (ndr. Andy Murray), ma non male anche quella a New York contro Rafa (ndr. Rafael Nadal).
Fabio Fognini con Roger Federer al torneo di Madrid
– Hai giocato nel circuito professionistico in un periodo storico di grandi campioni quali Federer, Nadal, Djokovic, Murray, Del Potro, Wawrinka e molti altri ostici top ten – eppure hai conseguito risultati di prestigio. Malgrado questo, hai sempre ricevuto critiche, spesso gratuite da parte dei soliti “scienziati”. Come hai arginato in tutti questi anni il peso delle aspettative, derivante dai giudizi?
– Dei commenti demenziali non mi è mai interessato nulla perché arrivano da quei scommettitori frustrati che non meritano risposta; a loro ci pensava mio padre.
– Nel libro “Warning – La mia vita tra le righe”, dove si racconta la tua biografia, emergono due facce di Fabio Fognini: il genio, da un lato, e la sregolatezza dall’altro. Reputi questa tua ambivalenza caratteriale, così come viene descritta nel libro, un punto di forza che ha forgiato il Fabio Fognini in campo o, al contrario, un qualcosa che lo ha limitato nel raggiungere traguardi ancor più importanti di quelli già grandi che ha ottenuto nella sua carriera professionistica?
– Se avessi avuto un servizio buono, sarei rimasto per dieci anni nella top ten, ma purtroppo io servivo dalla cantina, mentre molti altri dal decimo piano di un palazzo!
L’esultanza di Fabio Fognini in una delle tante partite disputate con la maglia azzurra in Coppa Davis
– L’ultima partita della tua carriera, nel 2025, sul centrale di Wimbledon contro Carlos Alcaraz, ti ha visto vincere due set al numero 2 del mondo, tra l’altro più giovane di te di ben sedici anni, è la testimonianza di quanto fosse alto il livello del tuo tennis. Cosa ti mancherà di più di questi irripetibili 20 anni vissuti nel circuito professionistico al fianco di grandi campioni?
– Personalmente mi mancherà la routine quotidiana fatta di sudore, tensione, soddisfazione e delusione.Per quanto riguarda il tennis, è cambiato molto negli ultimi anni: non ci sono più i giocatori, o comunque ce ne sono pochissimi, con il talento dei campioni di 15 anni fa. Ora tirano, chi più chi meno, a 300 km/h e gli spettatori cominciano a essere stufi perché vorrebbero vedere qualcosa di diverso.
– Fabio Fognini dopo il tennis giocato. Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Hai mai pensato di occuparti di coaching, seguendo da vicino giovani talenti emergenti e giocatori professionisti? O anche di cimentarti come commentatore in un studio televisivo?
– In questo periodo mi godo la famiglia, divertendomi a partecipare in qualche trasmissione simpatica come “Ballando con le Stelle”, per il resto chi vivrà vedrà. Ciao a tutti.
Antonio Zugarelli, conosciuto da tutti come “Tonino”, ha dato tanto al tennis italiano: è stato numero due d’Italia nel 1973 e ha raggiunto la ventiquattresima posizione del ranking mondiale nel 1977. Vincitore della Coppa Davis nel 1976, insieme a Adriano Panatta, Corrado Barazzutti e Paolo Bertolucci, e finalista degli Internazionali di Roma nel 1977 – Zugarelli vanta due tornei ATP Tour all’attivo: Bastad in singolare e Bruxelles in doppio.
La mia foto con Tonino Zugarelli al Bar del Tennis del Foro Italico
– A che età hai scoperto il tennis? È stato il tuo primo sport?
– Il tennis non è stato il mio primo sport perché all’epoca, negli anni ’50, i bambini sceglievano il calcio. Il tennis, per me, è stata quasi un’esigenza, perché nasco come un giocatore che ha fatto, prima di tutto, il raccattapalle. Provengo da una famiglia povera, perciò c’era bisogno di aiutare i miei genitori con il lavoro di raccattapalle, nei circoli sul Lungotevere, a Roma. Il tennis era uno sport d’élite, e questo era uno dei motivi per cui, dopo aver raccolto le palline per un’ora, speravo di ricevere qualche mancia. Mancia che sarebbe servita per dare una mano alla mia famiglia.
– La storia di Tonino Zugarelli sui campi da tennis è iniziata con Mario Belardinelli, all’epoca figura di spicco della Federazione Italiana Tennis e talent scout di giovani tennisti. Puoi raccontare ai nostri lettori cosa ha notato Belardinelli nel tuo gioco e quali ricordi conservi di lui ancora oggi?
– Mario Belardinelli ha rivestito una parte importantissima nella mia vita e nella mia carriera di tennista. Però si parla già di quando avevo 20 anni, periodo nel quale fui convocato al Centro di Preparazione Olimpica di Formia. Facendo un passo indietro, quando avevo circa 15 anni, ci sono stati degli eventi che mi hanno dirottato dal calcio al tennis in modo definitivo. Belardinelli non è stata, quindi, l’unica figura importante nella mia crescita di giocatore, ma ve ne sono state altre prima, risultate per me determinanti nella scelta di fare il tennista. Dopo di queste, è avvenuto il passaggio al professionismo ed ecco lì che Belardinelli ha ricoperto la parte relativa alla formazione. Riguardo ai ricordi che ho di lui… posso dirti che era un professionista attento a predisporre mentalmente i giocatori ed aveva la capacità di entrare dentro la loro testa, a capirli e a plasmarli. Aveva tutti i requisiti per aiutarmi a raggiungere i miei obiettivi.
– Chi sono stati i tennisti italiani, della tua generazione, con i quali hai condiviso i momenti più belli della tua vita in campo? Quale rapporto umano si è instaurato con ognuno di loro?
– Ho vissuto la mia vita con diversi giocatori. Nell’ambito della Coppa Davis, ho passato tanto tempo insieme a Adriano Panatta, Corrado Barazzutti e Paolo Bertolucci. Però ho instaurato un’amicizia più profonda con altri tennisti, fuori dal contesto della Nazionale: per fare dei nomi, direi Vincenzo Franchitti e Ezio Di Matteo, tra tutti. Con gli altri tre giocatori della Coppa Davis, abbiamo condiviso vittorie e sconfitte insieme. Con loro c’era sicuramente un rispetto reciproco. Ognuno aveva la capacità di stare al suo posto e di portare il suo apporto alla Nazionale, elementi che ci hanno consentito di essere coesi. Fermo restando che, per me, l’amicizia è un’altra cosa: Franchitti e Di Matteo lo sono stati nel vero senso del termine.
I protagonisti del film “Una squadra”, vincitori della Coppa Davis nel 1976 in Cile, insieme al produttore cinematografico Domenico Procacci
– Sei stato campione dell’insalatiera nel 1976 in Cile, nella squadra dei “quattro moschettieri” con Panatta, Barazzutti e Bertolucci. Il Capitano non giocatore, della formazione azzurra, era Nicola Pietrangeli, con il quale c’erano delle discrepanze. Cosa successe tra di voi negli anni ’70?
– In Coppa Davis, dall’inizio alla fine, ci sono sempre stati una grande armonia, un rispetto reciproco e un equilibrio tra i giocatori, elementi che ci hanno portato ad ottenere delle vittorie che, per noi, ancora oggi, rimangono intramontabili. I problemi che ho avuto sono nati con l’avvento del Capitano Nicola Pietrangeli, non perché non mi avesse fatto giocare, ma per una mancata considerazione da parte sua, nei miei confronti, come giocatore. Mi vedeva più come “un tappabuchi”, impiegabile nella squadra solo nei momenti di necessità. Avvertivo, quindi, che non avesse una grande stima di me, né come persona, né come giocatore. E questo era il motivo per cui mi ribellavo quando lui non rispettava le regole di convivenza. Ma non ci sono state mai, da parte mia, delle polemiche sull’esclusione o sul non avermi fatto giocare in certi incontri.
– Cosa ne pensi della nuova formula della Coppa Davis e dei risultati fin qui conseguiti dall’attuale movimento di tennisti italiani?
– La nostra Coppa Davis era strutturata in un modo completamente diverso rispetto a quella attuale. Diciamo che è rimasto soltanto il nome di quella che era la vecchia Coppa Davis, ma questo non ne toglie il prestigio e la risonanza. Anzi, devo dire che, nel 2023, il successo ottenuto dai ragazzi capitanati da Filippo Volandri, ha rivalutato la vecchia e la nuova formula. Anche se sono cambiate molte cose, i nostri tennisti italiani hanno dimostrato di tenerci alla Coppa Davis e ai colori della maglia azzurra. Prendiamo Sinner, che ha contribuito in modo importante alla vittoria dell’Italia. Ed è proprio grazie all’impegno di questi ragazzi, che hanno profuso tutte le energie per vincere, che è stata rivalutata anche la nostra Coppa Davis. Se loro non l’avessero vinta e il mondo non ne avesse parlato così ampiamente in televisione e sui social, a noi del ’76 in Cile chi ci avrebbe ricordati? Se la squadra attuale è riuscita in questa impresa, anche la squadra dell’epoca è degna della stessa considerazione. Quindi, in un certo senso, ne abbiamo avuto beneficio anche io, Adriano, Corrado e Paolo, oltre all’allora Capitano. Dopo 47 anni, è stata una gratificazione che abbiamo avuto, grazie a loro. E questo aspetto penso sia da mettere in risalto.
– Nel 1982 è terminata la tua carriera da tennista professionista. In seguito, purtroppo, si è sentito parlare sempre meno di Tonino Zugarelli, pur rimanendo uno dei grandi protagonisti del tennis italiano. Facendo un breve riassunto in ordine cronologico, di cosa ti sei occupato da dopo il tuo ritiro ad oggi?
– C’è da fare una premessa importante. Il professionismo, nel tennis, è nato intorno agli anni ’74-’75. Vuol dire che, prima, il tennis era dilettantismo. Non c’erano montepremi che potessero spingere i giocatori a disputare tornei lontani dal proprio Paese. Prendo, come esempio, noi quattro della Coppa Davis: mi risulta che Barazzutti sia andato solo una volta a giocare gli US Open. Anche in Australia non si andava, in quanto si dovevano spendere troppi soldi di tasca propria per provare a vincere solo una coppa. Quando mi sono ritirato, il circuito internazionale ha iniziato ad investire economicamente di più nei tornei, ma non erano comunque dei montepremi paragonabili a quelli di oggi. Il tennis non è come nel calcio dove, quando smetti di giocare e superi l’esame di allenatore, ti occupi di professionismo, se non di Serie A almeno di Serie B. Quindi, quando si terminava la carriera di giocatore, le strade erano due: o si lavorava nella Federazione, o si era costretti ad entrare in un circolo per fare delle lezioni ed andare avanti. Preciso che la mia carriera non mi ha arricchito, per cui, appena mi sono ritirato dal tennis giocato, ho dovuto cercare un lavoro non avendo avuto la possibilità di collaborare con la Federazione. A quel punto, ho iniziato a pensare di cosa occuparmi nel dopo tennis: decisi di investire i risparmi, che avevo da parte, in un circolo di tennise dovetti prendere anche un mutuo.Purtroppo, però, per varie vicissitudini, questo progetto non andò per il verso giusto. Successivamente, venni chiamato dalla Federazione e questa collaborazione durò 5 anni. Oggi, superati i 70 anni, ho trovato un po’ di stabilità nel lavoroe, grazie al Foro Italico, sono circa 7-8 anni che sto lavorando in modo continuativo.
– Attualmente ricopri il ruolo di Direttore Tecnico della scuola tennis del Foro Italico. In cosa consiste la tua attività in un palcoscenico così prestigioso a livello internazionale, come quello del Foro, che ogni anno ospita gli Internazionali di Roma?
– Il Foro Italico è una location di prestigio, nella quale faccio il coordinatore della scuola tennis. Abbiamo, circa, 170 bambini dai 6 ai 15 anni e, qui, i maestri e i preparatori atletici sono tutti all’altezza di lavorare in una scuola così importante. Sono orgoglioso di come stanno andando le cosee spero di poter dare ancora il mio apporto per qualche altro anno.
– E, infine, vorrei chiederti se vedi all’orizzonte, fra i tuoi allievi, qualcuno che abbia i requisiti per diventare una promessa del tennis italiano.
– Il Foro Italico è una scuola di avviamento: si tratta di allievi piccoli che iniziano a giocare a tennis e dei quali ci occupiamo della formazione fisica e tecnica. Nel momento in cui noto dei ragazzi con delle qualità, sono io a dirgli di scegliere dei circoli con un’attività agonistica strutturata. Al Foro Italico ce ne sono diversi che hanno delle caratteristiche in prospettiva interessanti, ma qui non le svilupperanno, in quanto noi li avviamo al tennis, dando loro una impostazione tecnica.
Nel mondo del tennis ti conoscono tutti come la figura che ha affiancato Matteo Berrettini nel suo percorso di crescita, dai primi tornei giovanili di categoria fino agli appuntamenti nei tornei del Grande Slam. Ma prima di aver intrapreso un lungo cammino che, dal 2011, ti ha portato a formare e ad allenare Matteo, hai avuto un passato da giocatore di alto livello. Molti si ricordano del Vincenzo Santopadre ex tennista del circuito ATP, ma non tutti sanno che sei parte della grande famiglia del Circolo Canottieri Aniene di Roma.
La mia foto con Vincenzo Santopadre al Circolo degli Esteri
– Quali sono stati i tuoi primi passi verso il tennis agonistico? E quando ti sei reso conto di poter intraprendere la strada del professionismo?
– I miei primi passi verso il tennis agonistico sono iniziati all’età di 11 anni, partecipando ai tornei Under 12. All’epoca ho giocato per due anni al Circolo Junior Lanciani e, nel settembre del 1983, sono passato al Tennis Club Parioli, dove sono rimasto per circa vent’anni. Ho intrapreso la strada del professionismo subito dopo aver completato gli studi al liceo e aver conseguito la maturità, nel luglio del 1990. Da lì è cominciata la mia attività professionistica, partecipando ai tornei Satellite. All’epoca ce n’erano tre, più un Master.
– Per arrivare ad essere numero 100 del mondo, c’è un percorso alle spalle di sacrificio, allenamento ed investimenti. Ma anche di vittorie e sconfitte. Quali sono gli insegnamenti più grandi che il tennis ti ha dato, in qualità di giocatore?
– Credo che qualsiasi percorso, sia nelle fasi iniziali che dopo tanti anni di attività, costi sacrificio, impegno e responsabilità, come avviene un po’ in tutti i lavori. Nel tennis si vivono delle vittorie e delle sconfitte che fanno parte di qualsiasi disciplina ma, essendo uno sport individuale, gli insegnamenti che lascia possono essere ancor più grandi. Oltre a questo, penso che il tennis sia uno sport altamente formativo, capace di trasmettere tanti valori importanti: insegna a cercare soluzioni, a rialzarsi dalle sconfitte, ad avere quindi delle opportunità di crescita attraverso gli insuccessi, ma anche a gioire delle vittorie, dopo aver lavorato per raggiungerle. Gli insegnamenti che ho appreso, in qualità di giocatore, sono molteplici e fatico a trovarne uno solo: è uno sport dove, quello che si fa in campo, è un lavoro quotidiano, dove ci si mette alla prova, dove si cerca di essere migliori rispetto al giorno precedente.
Vincenzo Santopadre in campo al Circolo Canottieri Aniene
– Avendo tu vissuto in campo determinate situazioni, hai potuto trasferire le tue conoscenze anche ai giocatori che hai allenato: tra questi spiccano Flavio Cipolla, Nastassja Burnett e, non per ultimo, Matteo Berrettini, con il quale hai raggiunto, finora, i risultati più significativi come Tecnico e Coach. Ma prima di arrivare al famoso binomio con Matteo Berrettini, come sono state le tue esperienze precedenti?
– Ho iniziato la carriera di Coach, con le prime esperienze, quando ho smesso di giocare nel 2005. Devo fare un premessa: ho avuto la fortuna di avere quattro Maestri di un calibro eccezionale, sia come persone in primis, sia come Tecnici di estremo valore. Mi riferisco a: Paolo Spezzi, Chicco Meneschincheri e Vittorio Magnelli – che ho trovato al Parioli – e a Giampaolo Coppo, con il quale ho condiviso un bel percorso. Ognuno di loro mi ha trasmesso e mi ha lasciato qualcosa. Oltre a questo, ho avuto anche la fortuna di esser entrato in contatto con 3/4 di coloro che hanno vinto la Coppa Davis nel 1976; parlo di Adriano Panatta, Corrado Barazzutti e Paolo Bertolucci che ho avuto come Capitani in diverse occasioni. Da lì ho iniziato a formarmi come Maestro, una formazione chehoconsolidato attraverso molteplici esperienze: lavorando con i più piccoli, con i ragazzi più grandi; allenando giovani agonisti, accompagnando loro nelle gare a squadre, nei tornei individuali e nei campionati nazionali di Challenger. Tu hai citato Flavio Cipolla e Nastassja Burnett che ho seguito in passato; ho allenato anche Marina Shamayko, una ragazza russa che giocava molto benee Jacopo Berrettini. Devo dire, insomma, che le esperienze non sono mancate.
Vincenzo Santopadre e Matteo Berrettini dopo la conquista del trofeo al Serbia Open 2021
– Qual è stata la chiave del successo nel sodalizio tra Vincenzo Santopadre e Matteo Berrettini?
– La chiave del successo nel sodalizio con Matteo credo sia stata la fiducia reciproca, la capacità di ascolto reciproco, la voglia di voler crescere insieme, di seguire un percorso mano nella mano. Lui si è fidato ed affidato e, nel tempo, abbiamo raccolto quello che insieme abbiamo costruito. Ci sono stati, fin da subito, un rispetto reciproco e delle similitudini caratteriali: credo che siamo entrambe due persone che hanno riscontrato, l’una nell’altra, grandi serietà, affidabilità, voglia di lavorare e senso del dovere. Credo di averne elencate tante, ma penso la differenza l’abbia fatta proprio questo perché, in caso contrario, un rapporto tra un allenatore e un giocatore non potrebbe durare per così tanti anni.
– Quali sono i ricordi più belli vissuti in campo con Matteo e la sua famiglia? Per intenderci, quei ricordi che, se tornassi indietro, rivivresti a pieno?
– I ricordi sono tantissimi ed è difficile sceglierne uno su tutti. Ce ne sono molteplici: il primo torneo Challenger vinto a San Benedetto del Tronto, le gare a squadre che abbiamo fatto con l’Aniene, l’exploit a Wimbledon, le vittorie dopo gli infortuni, il raggiungimento delle ATP Finals. Sono veramente tantissimi. Ma quello che più mi piace ricordare, è che c’è stata una condivisione sia dei successi, sia degli insuccessi. E questo credo sia molto importante. Ovviamente, tra i ricordi da menzionare, ci sono la progressione di vittorie a Wimbledon nel 2019, quando Matteo è arrivato, per la prima volta, alla seconda settimana di uno Slam; anche l’anno precedente aveva vinto contro Jack Sockal quinto set, rimontando da 2 set a 0 sotto. Quello è stato un grandissimo successo. Sempre nel 2019, l’anno degli ottavi di Wimbledon, non posso dimenticare la semifinale raggiunta agli US Open, dopo aver vinto una partita al cardiopalma contro Gaël Monfils nei quarti di finale.
Matteo Berrettini insieme a Vincenzo Santopadre, Lorenzo Sonego e lo staff
– Anche nelle belle cose, ci può essere una fine. Sembra banale dirlo a parole, sebbene non lo sia affatto: dopo aver accompagnato Matteo in un percorso di crescita, averlo visto esultare e gioire nelle vittorie, nei piazzamenti del Grande Slam, nella top ten… si è chiusa la lunga collaborazione, iniziata nel 2011 e terminata nel 2023 con il tennista romano. Cosa ti ha lasciato questa esperienza da un punto di vista professionale e, soprattutto, da un punto di vista umano?
– Il percorso di coaching con Matteo è stato lunghissimo e mi ha lasciato tantissimo, perché di strada ne è stata fatta e di tempo ne è passato; è stato un percorso vissuto molto intensamente, che mi ha arricchito dal punto di vista professionale in modo notevole. Anche perché, come in tutte le professioni, quando ci si dedica con passione, non si può non crescere, avendo capacità di ascolto, vedendo quello che fanno gli altri, domandando a chi ne sa di più, cercando di condividere poi il lavoro… perché, di base, abbiamo fatto un grande lavoro di squadra. Un percorso che mi ha arricchito inoltre dal punto di vista umano, sempre grazie al team, con il quale si è cresciuti tantissimo tutti quanti. Anche perché, quando si viaggia per tantissime settimane all’anno, se non si hanno delle persone con le quali condividere, non solo il lavoro, ma anche una parte extra, sarebbe una vita troppo faticosa. E invece non è successo questo, perché c’erano delle persone nel team con le quali si condivideva, sia l’aspetto professionale, sia tutto quello che era fuori dal contesto di lavoro.
Coach e Giocatore insieme: Vincenzo Santopadre, con Matteo Berrettini, finalista al Torneo di Wimbledon nel 2021
– Tutti gli appassionati si aspettano di vederti nuovamente all’opera con giovani promesse del tennis italiano. Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
– Dopo l’interruzione del rapporto con Matteo, ho deciso di prendermi un periodo di pausa, per recuperare ed avere la capacità di poter scegliere, a mente fredda, il da farsi. Non ti nego che delle proposte siano già arrivate: alcune interessanti e altre meno, che sto vagliando. Nel frattempo, non mi sono assolutamente staccato da quella che è sempre stata, nel corso degli anni, la mia seconda casa, anche quando seguivo Matteo, e che è il Circolo Canottieri Aniene, sia con la scuola tennis sia con l’agonistica. È un posto dove vado sempre con grandissimo piacereed è il circolo al quale devo tanto, se non tutta la mia carriera di allenatoree non solo.
– Quando e come nasce l’idea di creare la piattaforma online Tennis No Limits?
– Tennis No Limits è un progetto che avevo in cantiere da tanto tempo. Come docente, ho sempre sentito il bisogno di dare maggiore supporto alle centinaia di insegnanti che ho formato in tanti anni di attività, supporto che non può esaurirsi nell’arco di un corso di formazione. Le competenze che deve sviluppare un insegnante di tennis sono tantissime e la Tecnica è solo una delle tante. Ci sono aree come la Comunicazione, le Tecniche di Mental Training, l’Organizzazione, la Programmazione, la Definizione degli Obiettivi, che sono fondamentali per la nostra attività e che vengono trascurate o insegnate col contagocce nel percorso formativo di un insegnante. Per questo motivo nasce Tennis No Limits. Per dare la possibilità ad un istruttore o ad un maestro di acquisire le competenze di cui ha bisogno per eccellere nella propria professione.
– Quali sono le risposte che vuoi fornire ai praticanti ed appassionati del nostro sport, attraverso il progetto Web che hai creato?
– In realtà, all’inizio, il progetto era indirizzato solo agli insegnanti di tennis. Ma, ricevendo tantissime richieste dagli appassionati di questo sport, i cosiddetti amatori, ho allargato la comunicazione. I giocatori amatoriali sono avidi di informazioni, sono pronti a mettersi in gioco, hanno voglia di applicare in campo nuove strategie per migliorare i propri risultati. Per certi versi, sono più ricettivi degli stessi maestri che, a volte, rimangono un po’ chiusi nel loro guscio. Per questo motivo, sul mio canale YouTube e, di conseguenza, sulle mie pagine FB e IG, pubblico anche dei video per i giocatori. In questo modo, posso dare delle risposte alle tante domande che i praticanti non trovano nei corsi che frequentano.
– Quali sono le richieste più frequenti da parte dei tuoi clienti per poter correggere e risolvere i difetti tecnico-tattici del loro gioco?
– Le richieste sono tante. Si parte da domande su come correggere aspetti tecnici del proprio gioco, per arrivare a domande su come gestire al meglio le fasi di gioco dal punto di vista tattico e mentale. Spesso l’insegnamento della Tattica viene sottovalutato, così come raramente si insegna a leggere un match e a gestire le proprie emozioni. La Tecnica, ad esempio, è uno strumento al servizio della Tattica ed insegnare cosa fare e quali soluzioni scegliere, sin dai primi colpi, è fondamentale per lo sviluppo di un giocatore. In Tennis No Limits si apprende anche questo. Non basta essere dei buoni colpitori; bisogna anche saper fare le scelte giuste in campo per ottenere risultati e saper gestire, a livello emozionale, i momenti importanti durante una partita.
Mauro Marino al lavoro con i corsisti durante una lezione dedicata agli istruttori: far capire all’allievo come superare delle difficoltà tecniche
– Nel tuo caso non ti rivolgi solo ad un pubblico di praticanti e appassionati, ma fai anche formazione a maestri ed istruttori federali. Puoi raccontarci cosa prevede questa attività di formazione? Di quali strumenti didattici ti avvali?
– Gli istruttori e i maestri che sono all’interno di Tennis No Limits hanno bisogni diversi, perché ogni realtà sportiva è differente e il target a cui si rivolgono cambia di conseguenza. La formazione, quindi, deve necessariamente spaziare tra vari argomenti. Nel nostro sistema si approfondiscono argomenti Tecnici, Tattici, si lavora sull’acquisizione di competenze che riguardano l’aspetto Mentale, per aiutare gli allievi ad esprimersi al meglio nelle loro prestazioni. Si lavora sulla Comunicazione, per imparare a trovare la giusta interazione con gli allievi, con i genitori, con i clienti e per posizionarsi sul mercato attraverso le piattaforme Social. Si impara a Programmare, per sapere cosa fare in campo, quando farlo ed essere sicuri di seguire il percorso giusto. Si impara a costruire nuove esercitazioni per vari livelli di gioco e per allievi con diverse difficoltà. Si lavora sulla video analisi e sulla match analisi. Per aiutare questi istruttori e maestri, utilizziamo una piattaforma online alla quale si può accedere in qualsiasi momento e da qualsiasi supporto (cellulare, tablet, pc); abbiamo riunioni periodiche in diretta Live, ogni due settimane, per affrontare tutte le tematiche con gli stessi maestri. Questa condivisione e questo aggiornamento continuo sono i punti di forza del nostro sistema.Se pensiamo che un istruttore, in media, frequenta dei corsi di aggiornamento una volta ogni due anni, mentre in Tennis No Limits l’aggiornamento avviene 24 volte l’anno, mi sembra evidente la differenza di formazione alla quale ha accesso chi è all’interno della piattaforma. Inoltre, durante i nostri appuntamenti, i maestri condividono le proprie esperienze e questa è un’altra caratteristica importante e unica. In Tennis No Limits, gli insegnanti italiani ma anche di altre Nazioni, portano le proprie esperienze nell’ambito della tematica affrontata e questo ha una forza devastante sul senso di condivisione e di appartenenza che si crea.
– Quante ore del tuo tempo giornaliero investi in campo e quante ore online per Tennis No Limits?
– Difficile calcolare le ore dedicate a Tennis No Limits. Quello che posso dire è che mi assorbe molta energia e richiede tante ore di lavoro. Ma, d’altronde, impegno, passione e duro lavoro non sono le componenti indispensabili per raggiungere qualsiasi obiettivo?
Mauro Marino nelle vesti di Docente, durante una lezione in classe con i maestri che seguono il suo corso di formazione
– L’AICS (Associazione Italiana Cultura Sport) è un’Associazione che promuove lo sport, parallela alla Federazione Italiana Tennis e riconosciuta dal Coni come Ente Nazionale di Promozione Sportiva. Fai parte della Commissione Nazionale AICS in qualità di Coordinatore e sei, allo stesso tempo, Maestro Nazionale FIT. Quali sono le differenze tra i due Enti a livello di qualifiche dei Maestri ed operatività sul territorio?
– Le differenze istituzionali sono che l’AICS si occupa di Promozione Sportiva, oltre che Culturale e Sociale, mentre la FITP, come ogni federazione, si occupa maggiormente di sport di alto livello. Queste due aree spesso si intersecano e a volte si sovrappongono, ma il concetto di base dovrebbe essere quello che ho appena esposto. Per quanto riguarda l’attività e la formazione, l’AICS è un Ente di Promozione Sportiva molto attivo e con standard elevati sia nel tennis che nel padel. Per questo motivo, siamo stati i primi a sottoscrivere una convenzione con la FITP nel lontano 2011, dopo due anni di trattative. La firma di questa convenzione è un riconoscimento da parte della FITP del valore della nostra formazione. Una qualifica AICS è un titolo prestigioso perché, per superare gli esami, bisogna avere un alto livello di preparazione sia teorico che pratico. I nostri docenti sono molto preparati e spesso, nei nostri corsi, collaborano anche alcuni tecnici dell’Istituto Superiore di Formazione “Roberto Lombardi” della FITP. A livello operativo, siamo radicati sul territorio nazionale con oltre un migliaio di insegnanti di tennis e qualche centinaio di insegnanti di padel, che svolgono attività istituzionale AICS, sempre rispettando gli accordi sottoscritti con la FITP. Personalmente, amo pensare alla attività dell’AICS come un trampolino di lancio per i circuiti federali. Molto spesso, infatti, i giocatori fanno esperienza nei nostri circuiti e, quando si sentono pronti, si tuffano nei tornei federali ottenendo, in alcuni casi, ottimi risultati anche a livello nazionale.
– E, infine, vorrei chiederti quali saranno i tuoi piani per il futuro, visto che Tennis No Limits cresce ogni anno sempre di più.
– Qualcuno diceva “Il miglior modo di prevedere il futuro è crearlo” e questo è anche il mio motto. Quando sono partito con Tennis No Limits avevo qualche dubbio sulla risposta da parte del pubblico. Quei dubbi mi portavano a pensare: “Ma sei solo un maestro… perché pensi che il tuo progetto possa piacere? Lascia stare!”. Io non sono una persona che molla e quindi ho continuato per la mia strada, studiandoe mettendo in pratica quanto studiato. Alla fine, devo dire che i risultati mi hanno dato ragione. Un piccolo spoiler: è in cantiere un Tennis No Limits “Player Zone” con percorsi dedicati ai giocatori di vari livelli e relativo supporto. Rimanete sintonizzati sui miei canali!
L’esperienza in campo di Enrico Sellan, classe ’71, si divide in più fasi: carriera di tennista professionista (classifica ATP di 700 in singolo e di 500 in doppio), tesserato al Circolo Canottieri Roma; la famosa parentesi di sparring partner con Monica Seles; Direttore Tecnico delle scuole tennis di vari circoli romani.
Insieme ad Enrico Sellan in uno dei campi del Circolo Tennis Paolo Rosi di Roma, pronti per giocare
– Hai giocato tanti anni in serie B e, per un anno, in serie A2, tesserato per il Circolo Canottieri Roma. Le modalità di allenamento che si adottavano negli anni ’90, quando eri nella rosa dei tennisti del CC Roma, erano molto diverse da quelle odierne? In cosa consistevano?
– Era un altro tennis ed erano, di conseguenza, diverse le tipologie di allenamento. Io faccio parte di quella generazione a cavallo tra “la vecchia scuola” e quella moderna. Anche le conoscenze, a parte in alcuni casi, erano limitate. Non si parlava ancora di mental coach, di nutrizione e fisioterapia al seguito dei giocatori. Piuttosto, si lavorava quasi esclusivamente sui cardini del gioco, come il correre e mandare la palla aldilà della rete. Ovviamente, poi, ognuno di noi sviluppava un tipo di gioco seguendo le proprie attitudini. E le ossa te le facevi nei tornei, che erano strutturati in maniera diversa da quella odierna. Un giocatore con un ranking più basso, si misurava subito contro avversari di classifica più alta, quindi, qualora non fossi stato abbastanza allenato, rischiavi di collezionare un bel numero di primi e/o secondi turni. I tornei, tra l’altro, erano anche molti di meno rispetto ad oggi, quindi nei tabelloni trovavi svariati B1 e B2. Era sicuramente più difficile emergere. Oltretutto, non era in voga essere seguiti dal proprio maestro, quindi spesso te la dovevi cavare da solo.
– Credi che l’evoluzione del tennis sia dovuta solo al miglioramento dei materiali o anche ad un cambiamento della tecnica di gioco?
– Credo che l’evoluzione dei materiali abbia determinato un’evoluzione tecnica, ma anche tattica. Con le racchette di legno, la palla andava più piano e gli scambi duravano molto di più. Con le racchette di ultima generazione, invece, si tende a fare punto il prima possibile, ovviamente semplificando il concetto.
Enrico Sellan fa da sparring all’ex numero 15 del mondo, Robby Ginepri, durante gli Internazionali di Roma nel 2006
– Quali sono i ricordi più belli e le vittorie più significative che hai collezionato nelle coppe a squadre e nei tornei?
– Sicuramente le vittorie dei campionati italiani di B di doppio nel 1993, le vittorie sempre di doppio nei campionati assoluti regionali nel 92-93-97, la partecipazione agli Internazionali d’Italia nel 1992, e per ultimo, cronologicamente parlando, il titolo italiano nel 2021 nel campionato a squadre over 40 con il Canottieri Aniene.
– Vorrei chiederti, in base alla tua esperienza di giocatore, cosa ritieni sia indispensabile avere nel proprio bagaglio tecnico, tattico e mentale per poter essere competitivo in modo continuativo nelle partite di torneo e di campionati a squadre.
– Sai, ognuno ha le proprie caratteristiche di giocatore e caratteriali, e non ce n’è una meglio di un’altra in senso assoluto. La bellezza di questo sport risiede anche in questo, e cioè che si possono perdere partite con giocatori tecnicamente meno validi, ma che, magari, eccellono nella lettura della partita oppure hanno una buona tenuta mentale. Detto questo, nel tennis odierno, il servizio ed il diritto la fanno da padroni. Il saper uscire da situazioni difficili variando, per esempio, la propria tipologia di gioco, è sicuramente vantaggioso. Essere determinati nei punti importanti e non abbattersi di fronte alle difficoltà, è necessario nel tennis di oggi, così come avere una grande preparazione atletica che ti permetta di giocare tutti i giorni match lunghi e combattuti.
Enrico Sellan durante un allenamento con Stefan Edberg agli Internazionali d’Italia negli anni ’90
– In quale occasione hai conosciuto Monica Seles? Come ha avuto inizio la vostra collaborazione?
– Era il 1992, l’anno in cui ho giocato le qualificazioni agli Internazionali d’Italia, e lei alloggiava (come quasi tutti i giocatori) all’Hotel Hilton, che ha 2 campi da tennis. Spesso i giocatori preferivano allenarsi lì, lontano dai riflettori e dai fans. Io conoscevo bene i maestri che insegnavano su quei campi e Monica chiese loro degli sparring partner con cui allenarsi. Uno fra quelli chiamati ero io e, durante l’allenamento, mi si avvicinò il padre per chiedermi se avessi potuto andare con loro al Roland Garros. Il giorno della finale vinta contro Steffi Graf a Parigi, entrai in contatto con il manager della Seles che mi prolungò il contratto per i giorni che intercorrevano fra Parigi e Wimbledon e, successivamente, per tutto il torneo londinese. Il giorno della finale sull’erba persa con la Graf, mi prolungarono il contratto fino al 31 Dicembredello stesso anno.
– Come organizzavi una sessione di allenamento con la Seles? Il lavoro di sparring partner ti permetteva anche di parlarci per darle dei consigli tecnico tattici sul suo gioco?
– Le sessioni di allenamento erano sempre concertate fra il padre, suo coach, e me. Quasi sempre, visto che si svolgevano all’interno di vari tornei, si andava a vedere l’avversaria successiva di Monica e poi si cercava di replicarne il gioco nell’allenamento. In ogni caso, sia lei che il padre, volevano assolutamente che io partecipassi attivamente agli allenamenti suggerendo soluzioni a determinate situazioni o, semplicemente, esprimendo pareri sul gioco. In partita poi ci pensava da sola, noi ci limitavamo ad incitarla e ad incoraggiarla nei momenti difficili.
Enrico Sellan segue i ragazzi dell’agonistica alla Rome Tennis Academy
– Quando hai realizzato che il lavoro di Maestro sarebbe stata l’attività principale della tua vita? Quali sono, dal tuo punto di vista, le gioie, da un lato, e gli insegnamenti più grandi, dall’altro, che questa professione può dare a chi la esercita?
– Da piccolo sognavo di diventare fra i giocatori più forti del mondo, come tutti del resto. Poi, una volta raggiunta l’età in cui si devono fare delle scelte, anche per motivi economici, mi è sembrato naturale scegliere la professione del maestro. Ma non pensavo mi desse tante soddisfazioni, invece più passa il tempo e più le soddisfazioni crescono. Dal bambino principiante che impara a palleggiare e a partecipare alle prime competizioni, al giocatore già adulto che, magari, si sta affacciando al mondo semi-professionistico, agli atleti professionisti. Ogni categoria sa darti emozioni, se fai questo lavoro con passione. Il tennis è uno sport individuale, ed anche se hai intorno a te maestri, preparatori e altre figure professionali, alla fine in campo ci vai da solo e devi sbrigartela da solo. Quindi, per me, è uno sport che forma il carattere come poche altre discipline sportive.
– E, per concludere, i tuoi progetti per il futuro nell’ambito della tua professione. Ti sei posto degli obiettivi tennistici da qui a medio-lungo termine?
– Negli ultimi anni mi sono dedicato a ragazzi che facevano attività agonistica o semi-professionistica; da settembre del 2022 sono rientrato nella scuola tennis del Circolo Canottieri Aniene, dove seguo prevalentemente il settore agonistico e pre-agonistico. Il mio impegno è portare a questi ragazzi, che sono ancora molto giovani, le mie competenze e le mie esperienze, in modo che possano crescere nel minor tempo possibile. Ho trovato uno staff ottimo dal punto di vista tecnico con il quale ho gran piacere a confrontarmi e lavorare insieme tutti i giorni, con l’obiettivo di migliorare sempre di più il livello del gruppo, senza avere fretta perché sappiamo molto bene che ci vuole tempo per raggiungere quanto ci siamo prefissati.
– Tiziano de Tommaso, Maestro Nazionale FIT, è l’ideatore e creatore di Tennis Winner Game, una piattaforma digitale che fornisce, ai suoi appassionati, consigli per migliorare il proprio gioco sotto il profilo tecnico, tattico, fisico e mentale. Quando e come nasce l’idea di dare vita ad una attività online esclusivamente dedicata al tennis?
– Tennis Winner Game nasce nel 2011, quando io e mia madre valutammo l’idea di cosa poter fare a livello digitale nel tennis, in quanto intuimmo che l’attività online sarebbe stata una delle nuove frontiere del futuro. Quindi cercai di mettere a disposizione la mia passione in rete, anche derivante dal fatto di aver terminato il mio percorso di tennista agonista nel 2009. Da lì presi la qualifica di Istruttore di primo grado, successivamente quella di secondo grado e, arrivando parallelamente al percorso per diventare Maestro Nazionale all’età di 25 anni, iniziai a studiare formazione e marketing online. Questo perché stavo valutando un qualcosa di diverso per la mia professione: l’involucro nel quale io ero all’interno, ovvero i circoli di tennis nei quali lavoravo, non mi soddisfaceva in base alla passione che avevo strabordante per questo sport. Mi sentivo schiacciato dalle eccessive ore di lavoro, dal fatto di dover lavorare anche il sabato e la domenica, di dover accompagnare i bambini ai Campionati a squadre e di non riuscire, pertanto, a slegare il mio tempo dal denaro. Essendo impegnato a tutto tondo in quell’attività, ciò che cercavo era una rendita automatica passiva, che consentisse, a me, di vivere in maniera ottimale la mia vita e, agli altri, di essere d’aiuto.
Vedevo che, in quel contesto, la cerchia di persone era una cricca che non avevo selezionato io. Facevo lezioni e l’80% delle ore le passavo in campo con clienti che non volevano migliorare ma, semplicemente, sfogarsi. Quindi diventavo più uno psicologo del tennis che non un professionista del settore. Ed è proprio per l’insieme di questi aspetti, che l’intenzione era quella di sistemare la mia vita, da un lato, e, dall’altro, migliorare realmente gli appassionati che intendessero elevare le proprie prestazioni. Ecco perché è nato Tennis Winner Game: riuscire a dare una ventata di aria fresca ad un mondo del tennis italiano tradizionale e, soprattutto, dedicarsi agli appassionati il cui settore, quello amatoriale, è poco toccato dal mio punto di vista. E perché poco considerato? In quanto, nei circoli, i maestri tendono a seguire i tennisti agonisti o i ragazzi che vorrebbero crescere nel tennis, tralasciando un po’ di più i giocatori amatoriali. Tennis Winner Game, per concludere la risposta alla tua domanda, è sorta grazie alla passione per una metodologia che potesse essere trasferita online e per la comunicazione, che è sempre stato il mio forte. Era da quando avevo 4 anni che commentavo le partite di Bruno Pizzul in televisione. Le ascoltavo e poi le riproponevo io stesso, facendo le azioni dei calciatori sul divano di casa mia col pallone da calcio. Questa abilità comunicativa, che era uno dei miei più grandi interessi da piccolo, l’ho tirata fuori e l’ho messa al servizio di Tennis Winner Game.
– “Per insegnare basta sapere e per educare bisogna essere” è uno dei tuoi motti imprescindibili. Come spiegheresti questa frase ai nostri lettori?
– Sì, è sicuramente un motto imprescindibile, una mia filosofia di vita. Qual è la differenza? Per l’insegnamento, ci sono tantissimi coach che sono stati, magari, tra i primi 50 o 20 del mondo, i quali, da ex professionisti, credono fermamente in quello che hanno fatto, senza sapere, però, che dall’altra parte c’è una persona non in grado di rispecchiarsi in sé stessi; ovvero, l’appassionato non è stato 50 del mondo, non è stato a Wimbledon, ha degli obiettivi diversi e il braccio è differente. Ecco perché l’insegnamento non è solamente e meramente tecnico o biomeccanico, ma anche educativo. Quando mi soffermo sulla frase “per educare bisogna essere”, intendo dire che l’educazione va oltre alla semplice tecnica e biomeccanica, va oltre al semplice insegnamento. Io quando educo, sono un insegnante insegnato, ovvero quando io sto insegnando ad un appassionato qualcosa, l’appassionato sta insegnando qualcosa anche a me. Non si guarda solo alla parte tecnica, ma anche all’intesa, all’empatia e, quindi, alla componente mentale per riuscire ad ottenere dei risultati con quell’appassionato e a fargli migliorare il suo livello di gioco.
– Quali sono i limiti tecnici che riscontri maggiormente nel tennis dei tuoi clienti e che strategie metti in atto per risolverli?
– Abbiamo un Webinar, una presentazione che si chiama “Il tennis dei vincenti” e che gira online ormai da due anni, nella quale seleziono le varie consulenze da organizzare durante la settimana e che io faccio personalmente. In queste consulenze spiego la metodologia che utilizziamo per migliorare il tennis degli appassionati e che si basa sull’allenamento settoriale, sia a livello neuro-psico-motorio, sia cognitivo. Infatti, l’allenamento settoriale prevede che, qualora si ripeta un’azione tra i 7 e i 21 giorni, tempo minimo e massimo per l’automatizzazione del gesto tecnico, quest’azione verrà radicata nelle strutture profonde del movimento e, di conseguenza, si riprodurrà in modo naturale.
Il Maestro Tiziano De Tommaso spiega il fondamentale del servizio ai suoi allievi in campo
Al contrario, nel momento in cui un appassionato faccia più cose durante la giornata, ovvero alleni dritto, rovescio, servizio e gioco di volo tutti insieme, il giorno dopo tenderebbe a rimuovere molto di quanto fatto precedentemente. Questo è l’allenamento “multitasking”, che noi di Tennis Winner Game sconsigliamo di fare, come la semplice “partitella da circolo”. E l’appassionato, alla fine, dice: “Non miglioro mai”. Non migliora mai perché non si sottopone ad un allenamento settoriale. Quest’ultimo, significa andare a curare solamente un dettaglio e a lavorarci per un periodo di tempo prolungato. È molto semplice da capire, è più performante e l’apprendimento arriva prima. C’è una spiegazione scientifica a questo: le fibre nervose sono avvolte dalla mielina e, più in particolare, da una guaina mielinica, che è come se fosse una corteccia di un albero. Questa guaina si inspessisce, tante sono le ripetizioni settoriali che si effettuano. Pertanto, quando si va ad applicare un allenamento settoriale, per esempio sul dritto, si vanno ad accendere molteplici circuiti neuronali del programma motorio del dritto che scaricano più agevolmente il collegamento su quel determinato gesto motorio. La guaina mielinica è, in sintesi, un catalizzatore dell’apprendimento che velocizza la trasmissione degli impulsi nervosi sulle fibre. Essendoci una spiegazione scientifica a questo, una persona non nasce con il talento in senso assoluto, ma può apprendere delle abilità mettendoci impegno e dedicandoci del tempo. Poi è chiaro che, chi abbia una predisposizione naturale per un determinato colpo, debba lavorare maggiormente su altri fondamentali. Ma, proprio grazie a questa scoperta della mielina, tutti possono migliorare, tramite un allenamento di tipo settoriale. Quali sono gli aspetti tecnici su cui hanno bisogno di lavorare principalmente? Chi il servizio, chi il dritto. Diciamo che, raramente, mi dicono il gioco di volo e il back, in quanto gli appassionati, cresciuti con il tennis di 30-40 anni fa, giocavano già con impugnature continental e, pertanto, hanno una certa dimestichezza con quei colpi. Sicuramente, gli appassionati di nuova generazione fanno molta più fatica a migliorare il servizio, anziché i colpi a rimbalzo, perché il servizio si gioca con un grip speciale che è la continental, mentre gli appassionati più giovani vengono già impostati con impugnature come la eastern e la semi western e, per questo motivo, fanno meno fatica ad apprendere e a migliorare i colpi a rimbalzo, anziché il servizio.
– Ogni allievo ha un approccio diverso quando si trova ad impugnare una racchetta e a colpire una pallina. In che modo individui determinati difetti che caratterizzano un allievo, rispetto ad un altro? E come fai a fornire loro una soluzione pratica?
– C’è una premessa da fare, ovvero distinguere la tecnica dalla biomeccanica. La prima corrisponde al personalismo dell’allievo, mentre la seconda si basa su alcuni parametri fissi che tutti devono avere per poter generare velocità nei colpi. Quindi come intervengo in tal senso? Sicuramente vado a fare un’analisi biomeccanica del colpo e sono certo che debba andare in quel modo, pertanto la nostra metodologia si poggia su delle solide basi biomeccaniche, mentre la tecnica la lascio variabile. Faccio un esempio: l’angolo fra braccio e tronco nel dritto dovrebbe essere orientativamente superiore ai 70 gradi. È ovvio che, qualora un allievo lo mantenga a 90 gradi, andrebbe comunque bene. L’importante è che il braccio non sia attaccato al corpo. Se, poi, l’orientamento della racchetta è rivolto con la mano in decontrazione verso il basso o con il palmo rivolto verso l’alto, quello dipende dalle impugnature utilizzate, ma è una personalizzazione tecnica. Vado a toccare il personalismo tecnico solo se conosco molto bene l’allievo in questione e so che cosa voglia cambiare nel suo tennis, altrimenti mi attengo ai solidi principi biomeccanici, attenendomi sempre ad un allenamento di tipo settoriale.
– Quali obiettivi ti sei prefissato, una volta avviata la tua attività digitale? E quali risultati di rilievo hai raggiunto fino ad oggi?
– Gli obiettivi che mi sono prefissato per la mia attività digitale sono quello di farla crescere prima in Italia e poi nel mondo. In Italia, ormai, ci sono abbondantemente riuscito, nel mondo invece devo ancora iniziare e questo sarebbe uno dei miei obiettivi a lungo termine. Per quanto riguarda i risultati che ho raggiunto fino ad oggi, ve ne sono diversi. Il 19 marzo 2019 sono stato chiamato in Parlamento come primo imprenditore digitale italiano, specializzato sul tennis, inserito nel libro “Eccellenze digitali italiane”. Ho fatto un discorso di circa mezz’ora dove, davanti ai politici, ho raccontato come sia riuscito a trasformare questo mercato, nonostante il tennis sia uno sport di campo, praticato e giocato. Quindi ciò che mi hanno chiesto in quella giornata è stato: “Come hai fatto a modificare le abitudini e i comportamenti dei tuoi clienti? Se il tennis si gioca, come fai a farti pagare se non entri in campo con loro?”. Questa è stata una domanda molto interessante, alla quale ho risposto dicendo che si utilizzano diverse strategie di marketing digitale, di comunicazione e di sponsorizzazione. Vi sono, quindi, tante altre attività complementari al tennis che mi hanno reso tutto, meno che un Maestro impegnato in campo.
Tiziano De Tommaso premiato tra le migliori eccellenze italiane nel mondo sportivo digitale
Un altro traguardo importante che ho raggiunto è stato quello di avere più di 450 appassionati all’interno dei nostri percorsi digitali. E quando parlo di percorsi digitali, mi riferisco alle nostre due punte di diamante che sono il Tecno Training e la Tennis Winner Game Academy. Sono le due scelte più costose ma sono anche quelle che danno maggiore soddisfazione in termini di miglioramento, perché seguiamo l’appassionato passo passo, ogni giorno, anche a livello digitale. Gli prepariamo delle video analisi personalizzate, in modo che si trovi sempre in un rapporto diretto con me ed il mio team. Altro risultato di rilievo è stato quello di essere il primo canale YouTube in Italia per appassionati giocatori di tennis, con più di 18.700 iscritti, ancora oggi in costante crescita. E siamo anche la prima pagina Facebook in Italia, con 130 mila followers, che pubblica contenuti riservati esclusivamente al miglioramento per gli appassionati, sotto il profilo tecnico, tattico, fisico e mentale.
– Parallelamente all’attività che svolgi sulla tua piattaforma, so che stai studiando come funzionano il marketing e le vendite di un prodotto. A cosa possono tornarti utili nella tua professione?
– Mi sono utili a tutto, per quanto riguarda la mia attività online. Studiare l’info marketing, la comunicazione persuasiva, piuttosto che il comportamento delle persone, sono temi essenziali per quello di cui mi occupo. Fare marketing significa anche analizzare i comportamenti dell’essere umano e capire che gli esseri umani agiscono tutti, tendenzialmente, nella stessa maniera. Quindi, una volta che si comprende questo, si può anche applicare quello che stiamo facendo per il tennis in qualsiasi ambito della nostra vita. A cosa mi sta servendo aver studiato il marketing, la comunicazione, il saper scrivere per vendere? Significa dar valore alle tue idee e, di conseguenza, darti valore. Quindi vuol dire anche accrescere l’autorevolezza della tua persona, oltre che del tuo brand a livello aziendale. Apprendere quello che io ho appreso nel percorso di Tennis Winner Game comporta l’avere un miglioramento anche nella vita in generale: sei molto più impattante nel lavoro, nelle relazioni, nella vita di coppia, con la famiglia, sei molto più impattante in varie situazioni, anche quando devi conoscere una persona nuova. Già come ti poni, la comunicazione, il tono della voce, il linguaggio del corpo; tutto quello che si studia in PNL, ovvero in Programmazione Neurolinguistica, poi alla fine ritorna molto utile perché, qualora una determinata persona conosca te o conosca qualcun altro, noterebbe subito la differenza in base a diversi aspetti: a come ti poni, alla fiducia che hai, a come ti esprimi, come comunichi, quali sono le tue competenze.
Tiziano De Tommaso in aula parla ai suoi appassionati applicando la metodologia di Tennis Winner Game
Questo è un percorso che mi ha trasformato completamente, se solo pensi che, quando lavoravo in uno dei tanti circoli di tennis, parcheggiavo la macchina in ultima fila per non farmi vedere e mi rinchiudevo nei campi al coperto a lavorare. Ero molto bravo, ma non mi calcolava nessuno. Perché? Perché non mi sapevo vendere. Quindi, il cambiamento avvenuto in questi sei anni è stato un cambiamento epocale. Alle persone, a volte, non piace sentire la parola “vendere”, perché sembra che ci si approfitti di qualcosa o di qualcuno. In realtà, noi vendiamo in qualsiasi momento della nostra vita: io sto vendendo a te, in questo momento, una mia idea nel fare questa intervista, quindi credo di dire cose interessanti ed impattanti, altrimenti non staremmo qui a mettere in gioco il nostro tempo. Io vado a vendere, che cosa? Un’ipotetica vacanza alla mia ragazza, se lei vuole andare da una parte in montagna e io al mare, io devo convincerla quindi devo vendere la mia idea. Noi vendiamo in continuazione; non si vende solamente in cambio di denaro, ma anche in cambio di idee e di decisioni.
– E, infine, i tuoi piani per il futuro. Tennis Winner Game avrà delle novità per i suoi iscritti ed appassionati?
– Tennis Winner Game avrà senz’altro delle novità, quali dei Summer Camp all’estero, nuovi percorsi multimediali e nuovi videocorsi. Siamo sempre in continua evoluzione, quindi non pongo mai limiti alla provvidenza.
Carlo Bilardo a Cincinnati per il Western & Southern Open
– Com’è iniziata la tua avventura nel mondo del tennis?
– Nel 1996 presi la direzione sportiva del Forum Sport Center di Roma, un centro fitness con un’ampia scelta di sport da praticare e, tra questi, il tennis in modo particolare. Venivo da trascorsi come sprinter azzurro e allenatore di atletica leggera, ed iniziai ad organizzare dei programmi di allenamento per gli agonisti di tennis del circolo. La vera accelerazione avvenne quando Claudio Pistolesi volle aprire la propria Accademia di tennis all’interno del Forum nei primi anni 2000. Claudio allenava un portentoso Simone Bolelli in crescita esponenziale e decise di portare nella sua Accademia anche Alberta Brianti. Lei veniva da un periodo non molto positivo, ma con grandi potenzialità di sviluppo sia fisico che tecnico. Cominciai a seguirla costantemente ed i risultati non tardarono ad arrivare. Si trasferì poi a Milano e continuai a mandarle dei piani di allenamento che lei integrava con altre sedute. E fu nel 2011 che raggiunse il suo best ranking di 55 WTA.
– Sei nato a Roma, ma marchigiano di adozione, se così si può dire. Cosa ti ha spinto, professionalmente, a trasferirti da una grande città come Roma ad una realtà più piccola come Fermo?
– Andare via da Roma e trasferirmi a Fermo, nelle Marche, non è stata tanto una scelta professionale, quanto di vita. La mia compagna è nata a Fermo e, quando ci siamo trovati a lavorare senza sosta immersi nel caos di Roma e con un bimbo da crescere, non abbiamo avuto dubbi sulla decisione da prendere. In queste piccole province marchigiane funziona tutto: non ci sono file, traffico e, soprattutto, abbiamo la possibilità di sfruttare il tempo al meglio. Il tennis marchigiano è uno dei fiori all’occhiello della nostra Italia con la racchetta ed è guidato dal Presidente della Federtennis delle Marche, Emiliano Guzzo, da ben 13 anni.L’occasione di continuare a fare il preparatore atletico nel tennis era quindi possibile, ma cambiando stile di vita.
– Quali esperienze ti hanno formato per arrivare ad allenare delle tenniste e dei tennisti professionisti?
– L’Accademia di Claudio Pistolesi è stata la prima vera rampa di lancio dove, le mie esperienze provenienti dall’atletica leggera, si sono potute affinare nel tennis. Dopo essermi trasferito, ho iniziato a collaborare con la scuola tennis di Porto San Giorgio dove si sono formati giocatori come Gianluigi Quinzi ed Elisabetta Cocciaretto. Contemporaneamente, fui chiamato dal preparatore atletico Stefano Baraldo ad andare in Cina, insieme al coach Roberto Antonini, in una delle accademie più prestigiose di tennis a Guangzhou. La mia crescita continua ancora oggi, lavorando con Marco Sposetti e Marco Pisciotta nella nuova Accademia di Tolentino, nata in un circolo all’avanguardia internazionale.
Carlo Bilardo con Elisabetta Cocciaretto (a destra della foto) e la squadra under 16 di Porto San Giorgio
– Con chi hai collaborato, se dovessi fare qualche nome tra i vari giocatori italiani? In base al rapporto che hai instaurato con i tennisti che hai seguito, riusciresti a descrivere un aneddoto per ognuno di loro, oppure anche un ricordo vissuto insieme e che ti farebbe piacere raccontare?
– La prima tennista italiana che ho seguito è stata Alberta Brianti e di lei posso dire che è una grande professionista sia in campo che fuori; molto tifosa del Milan, grande ammiratrice di Gattuso ed è per questo che la chiamo “Ringhietta” quando ci sentiamo. Dopo il trasferimento a Fermo, ho incontrato una giovanissima Elisabetta Cocciaretto, ragazza sempre solare e sorridente anche nei momenti difficili, un grande talento. Durante gli spostamenti in macchina tra il circolo e la palestra, ero costretto a farle ascoltare “Who let the dogs out”dei Baha Men, un tormentone che era allegria allo stato puro. Ricordo quegli anni con grande piacere. Un altro talento che ho incontrato più saltuariamente è stato Gianluigi Quinzi; in particolare, ci siamo allenati nel periodo della sua maturità scolastica. Un ragazzo con un fisico ed una volontà di ferro e che, sicuramente, non ha raccolto quanto meritasse. Di Gianluigi colpiva la semplicità nel rapportarsi con la gente anche dopo la vittoria di Wimbledon Juniores; qui a Porto San Giorgio gli vogliono bene tutti, anche ora che ha interrotto la sua carriera da professionista. Ho allenato, inoltre, alcuni giocatori giovani come Elisa Tassotti, Andrea Meduri, Yaima Perez Wilson ed, ultimamente, Ilaria Sposetti e Sofia Rocchetti, entrambe nella nuova Accademia di Tolentino.
Carlo Bilardo con Saisai Zheng, finalista di doppio al Roland Garros
– Allenare regolarmente un tennista professionista significa anche accompagnarlo in giro per il mondo, in quanto la vita nel tour è fatta di numerosi spostamenti, da Nazione in Nazione e da città in città. Uscendo dal contesto nostrano, quali tennisti stranieri hai avuto l’occasione di allenare e in quali Paesi? Com’è stato per te, a livello esperienziale ed umano, lavorare lontano da casa in un ambiente differente dal quale eri inizialmente abituato?
– Fare il coach nei tour ATP e WTA implica tutta una serie di sacrifici e rinunce, nella propria vita privata, che non sono sempre facili da affrontare. Si sta lontani da casa, e quindi dai propri cari, anche per mesi interi, in quanto bisogna dedicarsi ai propri atleti e alle loro esigenze 24 ore al giorno. I continui spostamenti da un Paese all’altro e da un continente all’altro non ti fanno mai sentire a casa e con le radici in un posto. Finito un torneo, si prende il volo per il prossimo e, nel frattempo, un preparatore atletico non deve perdere il filo conduttore della sua programmazione, ma anzi deve adattarla, in sinergia con il coach di tennis e il fisioterapista, ai problemi fisici che, purtroppo, in un tennista professionista non mancano mai.Abituarsi alle varie culture che si conoscono viaggiando, la vedo come un arricchimento dello spirito e anche avere la possibilità di scambiare delle metodologie di allenamento con altri preparatori, diventa una continua fonte di ispirazione che poi mi piace riportare nella mia terra e mettere a disposizione dei miei allieviitaliani. Ho avuto la fortuna di allenare, all’estero, molti professionisti stranieri come Olga Fridman (top 5 ITF) in Ucraina e numerosi in Cina, tra i quali: Yen Hsun Lu (33 ATP), Shuai Peng (14 WTA e 1 in doppio), Saisai Zheng (34 WTA e 15 in doppio), Yi Fan Xu (8 WTA in doppio), Zhu Lin (71 WTA) e Zarina Diyas (31 WTA). Di questi, la collaborazione con Zarina è stata fatta molto spesso in Italia e nelle Marche: lei, infatti, ha un legame speciale con la nostra Nazione e con i nostri fashion brands. Ha raggiunto il suo best ranking di 31 al mondo, allenata da Stefano Baraldo. E, ormai da qualche anno, mi dedico quasi esclusivamente alla preparazione di Saisai Zheng, arrivata al numero 34 WTA, dopo aver vinto il WTA 500 di San Jose.
– Passando a delle domande più tecniche, vorrei chiederti su cosa ti basi per organizzare dei circuiti di atletica e come li imposti in funzione del tennista che hai di fronte.
– Utilizzo molto i circuiti di atletica applicati al tennis e li organizzo a seconda delle caratteristiche fisiche dell’atleta e del periodo della stagione tennistica. Cambia tutto se ci troviamo durante la preparazione invernale oppure nel mezzo della stagione agonistica, se abbiamo una pausa lunga tra un torneo e l’altro oppure pochi giorni. Nei circuiti io tendo ad esaltare le caratteristiche di un tennista effettuando tutte quelle esercitazioni che vadano ad incrementare le proprie doti naturali, mentre mi dedico a delle sedute specifiche per tutti quegli aspetti che richiedano una maggiore attenzione e di cui il nostro tennista sia meno dotato. Esiste poi una metodologia che sperimento personalmente da anni e che applico alle allieve donne durante la preparazione invernale ed i vari allenamenti stagionali; ovvero il ciclo mestruale, messo al centro della programmazione come punto di forza anziché di svantaggio.In questo, la donna sportiva ha un grande potere, spesso sottovalutato.
Carlo Bilardo con Saisai Zheng all’Asia Cup 2017
– Quali sono i requisiti indispensabili che una allieva o un allievo devono avere affinché si instauri, con te, un rapporto finalizzato al perseguimento di obiettivi condivisi?
– Ho avuto sempre rapporti bellissimi con i miei allievi e, se dovessi dire quali sono i requisiti indispensabili perché gli obiettivi siano condivisi e raggiungibili, dico che sincerità, volontà e determinazione sono ai primi piani della mia lista.
– E, infine, mi piacerebbe domandarti quali sono le soddisfazioni più grandi che il lavoro di preparatore atletico ti ha dato in questi anni e, in prospettiva, quali progetti vorresti costruire in un’ottica futura.
– Ho avuto la soddisfazione di raggiungere molti best ranking con i miei tennisti ed ottenere anche delle belle vittorie contro vari top players; tutto questo è passato attraverso 24 Slam, una finale di doppio al Roland Garros, una vittoria nel WTA 500 di San Jose, diversi successi nei Master 1000 di doppio con Yi Fan Xu. L’ultimo risultato positivo risale al torneo di doppio di Courmayeur, vinto da Zheng e Wang in coppia. Per quanto riguarda i miei progetti futuri, vorrei portare l’Accademia di Tolentino ad una conoscenza internazionale e dare ai miei colleghi più giovani la possibilità di affacciarsi al mondo professionistico.
La lunga esperienza di Adriano Albanesi nel circuito ATP ha inizio calcando i campi in terra rossa, tra allenamenti e partite di torneo, per poi distinguersi, a livello internazionale, nelle vesti di Coach di vari tennisti professionisti. Tra i successi da giocatore nel tour, spiccano la vittoria ai Campionati Italiani Under 18 a squadre, il raggiungimento della top 30 nella classifica dei migliori tennisti azzurri nel 2009, il best ranking ATP di 1290 in singolare e 800 in doppio, oltre a numerose partecipazioni nelle competizioni a squadre Interclub: in Francia e in Slovacchia; in Germania, nella terza divisione, e in Italia, nella prima divisione. In qualità di Coach, invece, Albanesi vanta diversi titoli ed esperienze con giocatrici e giocatori di livello ITF, ATP e WTA, tra i quali Lesia Tsurenko, Elena Rybakina, Riccardo Ghedin e Cristian Rodriguez, solo per citarne alcuni.
– Ex giocatore ATP, Maestro Nazionale FIT e Head Coach di tennisti del circuito maggiore, nonché attuale Direttore Tecnico della scuola tennis de L’Antico Tiro a Volo, uno dei circoli storici di Roma. La tua prospettiva sul tennis può essere quindi osservata da molteplici angolature. Dopo tutte le esperienze maturate in campo da protagonista e fuori, da supervisore, quanta mole di lavoro si cela dietro ad una semplice racchetta?
– Dietro ad una semplice racchetta, quando sei un giocatore, ci sono ore e ore di allenamento. Da tennista pensi in prima persona, sei egoista, ma si tratta di un sano egoismo perché vuoi raggiungere determinati obiettivi. È un percorso, comunque, fatto di tanti sacrifici. Da allenatore, personalmente, ho trascorso un periodo di studio, sia di partite viste sia di esperienze vissute a contatto con altri coach che mi hanno aiutato a migliorare e a capire più nel dettaglio il coaching, in quanto, con un trascorso da giocatore, approcciavo il lavoro di allenatore in modo schematico. Invece, quando sei un coach, devi avere la forbice un po’ più ampia perché, oltre ad essere un allenatore, sei anche un educatore. Quindi non tutto può essere sempre bianco o nero, ma bisogna trovare anche una via di mezzo. Quando comunichi con un giocatore devi metterti sullo stesso piano, perché altrimenti, qualora un allenatore non riesca a carpire le sensazioni del giocatore, o per lo meno quello che lui ti vuole trasmettere, diventa difficile anche una eventuale collaborazione. E, per evitare questo, devi viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda. È un qualcosa che ho capito tanto quando ho fatto esperienze con altri coach a livello internazionale e, per quello che riguarda la mia metodologia, sono migliorato anche quando ho avuto la possibilità di lavorare con dei bravissimi preparatori atletici. Quindi, per concludere la risposta alla tua domanda, ci deve essere la voglia, la passione, bisogna essere generosi con se stessi perché la strada è lunga e non si finisce mai di imparare. E ogni sfida ti può portare a nuovi percorsi via via migliori, purché dietro vi sia una grande preparazione.
Rovescio in salto ad una mano dell’Adriano Albanesi tennista, impegnato in un incontro di Serie A al Canottieri Nino Bixio di Piacenza
– Quali sono gli elementi imprescindibili, sia concreti che astratti, sui quali si basa un nuovo percorso di coaching con una ragazza emergente o con un giovane promettente?
– Sia che si tratti di una ragazza emergente o di un giovane promettente, gli elementi che reputo fondamentali sono il duro lavoro, ma soprattutto l’adattabilità, in quanto il più delle volte, in campo, si creano delle situazioni scomode e noi allenatori le riproponiamo. Qualora un giocatore non sia disposto all’adattamento, diventa tutto più difficile, specialmente per uno come me che impronta il lavoro in un certo modo. Spesso entro ed esco dalla comfort zone per testare chi sto allenando e, in questa situazione, è facile incontrare giocatori che facciano più fatica di altri; ma, di base, è l’adattabilità: si gioca tutto l’anno su superfici differenti, con numerosi ostacoli, quindi è imprescindibile per me trovare una scappatoia da questi punti focali. È normale che, per un giovane promettente, si cerchi di costruire, di gettare delle basi solide sulla consapevolezza dei propri mezzi. Mentre, per quanto riguarda un emergente o un giocatore già formato, si intraprende un percorso di consolidamento. Quando arriva da me un giocatore già avviato, si cerca di capire come mai non vada avanti e quali siano le sue difficoltà.
– In che cosa consiste e come è strutturata una “pre season” nella collaborazione tra un tennista professionista e il suo coach?
– Questa domanda mi fa impazzire, è una domanda bellissima perché la pre season per me è, emotivamente, un momento molto importante dove si studia e che ricordo benissimo con le giocatrici che ho allenato. Nei periodi di pre season lavoravo anche di notte, perché riassumevo tutto il filmato della giornata e cercavo di capire dove e come si potesse fare meglio. È uno dei momenti più belli dell’anno per me. Magari per i giocatori un po’ meno, perché loro hanno voglia e bisogno di fare tornei come anche noi allenatori; però, a noi coach, quel periodo della stagione ci permette di studiare e di non avere fretta nel lavorare sui loro punti deboli e anche sui loro punti di forza. La pre season, quindi, è una fase di studio vero e proprio.
Cristian Rodriguez, uno dei tennisti ATP allenati da Albanesi
– Quali aspetti ritieni fondamentali in un piano di allenamento specifico per un top player?
– Gli aspetti che ritengo fondamentali in un piano di allenamento sono il cercare di essere sulla stessa frequenza nella comunicazione coach-tennista, cercare di capire se una partita ti abbia dato delle informazioni affinché poi, in allenamento, tu possa limare, diminuire o aumentare determinate situazioni. Naturalmente, gli elementi fondamentali possono variare da giocatore a giocatore: c’è chi ha bisogno di lavorare maggiormente su un aspetto, chi su un altro. E se non ti trovi sullo stesso piano di chi alleni, non è facile fare coaching. Una linea guida imprescindibile, per me, è lo sviluppo del potenziale dell’atleta: scoprire quali sono i suoi pregi e suoi limiti, lavorando di pari passo su entrambie stilando un piano basato su obiettivi concreti, perseguibili. Solamente step by step, attraverso un percorso di crescita graduale, si può arrivare a ottenere anche risultati inattesi. Nel caso in cui un atleta salti determinate tappe raggiungendo i risultati prefissati in tempi più brevi del previsto, è possibile accelerare il processo di miglioramento, o attuare un altro percorso.
– Hai portato Lesia Tsurenko alla posizione numero 27 del ranking mondiale dopo più di un anno di lavoro insieme. Quarti di finale agli US Open, piazzamenti di rilievo nei WTA Premier, tra cui la finale a Brisbane e i quarti di finale a Cincinnati e a Birmingham. Tsurenko che peraltro sconfisse, in quelle occasioni, delle numero 1 al mondo come Caroline Wozniacki, Naomi Osaka e Garbiñe Muguruza. Quali sono le partite, giocate dalla Tsurenko, che ricordi con più piacere?
– Sembrerà strano, ma le partite che ricordo con più piacere non sono i quarti di finale agli US Open, le vittorie sulla Osaka e la Kontaveit a Brisbane, piuttosto che sulla Wozniacki e la Muguruza nella tournée americana. Queste sono le ciliegine sulla torta. Io ricordo di più le partite sofferte, non che i match contro le top players non siano stati lottati, però non posso dimenticarmi delle partite quasi perse, delle partite ribaltate di punteggio contro giocatrici di ranking anche più basso. E quelli sono gli incontri che per me contano. Èil mio modo di vedere le cose, ovvero: l’exploit, la vittoria contro una top ten o una top five sono delle emozioni incredibili perché vanno a coronare il lavoro che c’è dietro. Ma il lavoro che c’è dietro è tanto e le partite che ci sono dietro, prima di compiere un exploit, sono tante; ma, soprattutto, sono numerose le situazioni che uno deve ribaltare per consolidare la propria mentalità, il proprio atteggiamento. Sono proprio da quei momenti di difficoltà che si vede quello che uno sta cercando di costruire. Io ti ho elencato tanti exploit, ma ti assicuro che ci sono tantissime partite, come un primo turno al Roland Garros, dove erano tre settimane che lavoravamo insiemeed è stato, non un dramma, ma la prima partita che la Tsurenko aveva vinto dopo sei mesi. Impossibile dimenticarla perché è stata come una liberazione. Da quella partita si è aperta un’autostrada: il turno dopo batti la Vandeweghe, che era numero 18 del mondo epoi batti la Rybárikováche aveva fatto semifinale a Wimbledon l’anno prima. Quindi ne potrei elencare diverse, ma ci sono delle piccole partite chiave con giocatrici meno blasonate che, però, ti fanno trovare il ritmo partita, il ritmo torneo e ti fanno uscire fuori da situazioni difficili.
Adriano Albanesi a colloquio con Lesia Tsurenko, top 30 WTA
Se ce ne sono stati, come hai gestito tutti quei momenti di sfiducia che ha vissuto la tennista ucraina?
– I momenti di sfiducia e i periodi bui si possono presentare nell’arco di una stagione. La bravura dell’allenatore e del team che ruotano attorno a un giocatore è quella di evitare il più possibile un rendimento di alti e bassi. Penso che, laddove si presentino dei momenti difficili, andrebbero accettati, analizzati ma, soprattutto, per uscirne fuori, bisognerebbe ricominciare ad apprezzare le piccole cose perché, molte volte, siamo accecati dal “non risultato”, dalla “non performance“. E, invece, le cose invisibili intorno a noi possono offrirci un punto di vista differente. Il famoso bicchiere mezzo pieno: si riparte da quella parte piena. È poca? Non è proprio mezza? Va bene, si riparte da lì.
E, per concludere, uno sguardo al futuro. Quali sono i tuoi obiettivi da qui ai prossimi anni?
– Negli ultimi anni ho dedicato molto tempo alla famiglia e al lavoro di cui mi occupo attualmente, che è quello di Direttore Tecnico della scuola tennis de L’Antico Tiro a Volo, in quanto il circuito mi ha portato ad essere lontano da casa. E sono contento perché le mie figlie crescono con papà vicino. Sicuramente il circuito mi manca, ma in questo periodo della mia vita era giusto dedicare tempo alla famiglia. Quando si presenterà l’occasione e, qualora si ripresenti, uno dei miei obiettivi sarà quello di rientrare nel circuito.Non posso cancellare gli anni passati, anche perché mi hanno formato e hanno fatto in modo che diventassi un coach con più esperienza. Pertanto, se in un futuro si dovesse ripresentare un progetto nuovo e interessante, ci penserò.
Ex tennista professionista (best ranking 115 del mondo), commentatore televisivo su Sky Sport e SuperTennis, Titolare della Galimberti Tennis Academy, Testimonial di ASICS e sicuramente dimentico qualcosa. Sei una risorsa a tutto tondo nel mondo del tennis… ma partiamo dalle fondamenta.
– Com’è nata la tua passione per il tennis? A che età hai impugnato la prima racchetta?
– La passione per il tennis nasce da una tradizione di famiglia. Non a caso a Lissone, mio Paese di origine in provincia di Monza e Brianza, mio padre costruì un campo da tennis più di 50 anni fa, proprio per la passione legata a questo sport. Vien da sé che la racchetta la presi in mano da appena nato. Questo non vuol dire niente, perché ho due fratelli che, nonostante anche loro avessero il campo in casa, non sono diventati giocatori professionisti; però il contesto nel quale mi sono trovato mi ha sicuramente aiutato e indotto a giocare a tennis con regolarità.
– Il tennis è uno sport con classifiche specifiche in base al livello di gioco dei tennisti e prevede un calendario annuale di eventi come i tornei e i campionati a squadre. Man mano che si cresce nella seconda categoria e ci si avvicina alla prima, si prendono dei punti per poter accedere ai tornei Futures e Challenger. A tal proposito, vorrei chiederti quali step hai seguito per diventare un tennista professionista e che cosa comporta il passaggio dal circuito Challenger al circuito ATP.
– Ho seguito tutti i passaggi sin dall’attività giovanile: under 12 e under 14. Negli under 14 sono entrato nei primi 8, ho fatto i quarti di finale ai Campionati Italiani ma non ero parte della squadra di Coppa del Sol che erano i Mondiali under 14. Ho iniziato a farmi vedere negli under 16 quando, in una trasferta americana in Florida, vinsi due tornei: Permbroke Pines e Porto Rico. Da lì tornai, sicuramente consapevole di un buon livello, e la Federazione mi prese nella Nazionale; quindi partecipai alla Winter Cup dove vincemmo in Germania, a Saarbrücken, e da quel momento iniziai a giocare molto bene a tennis. Negli under 16 io e Daniele Ceraudo eravamo i primi due d’Italia. Poi ci fu l’anno dei 17, quando passai under 18. In quel periodo vivevo già a Cesenatico con la Nazionaledove c’era il Centro Tecnico Nazionale. Divenni numero uno d’Italia con un anno di anticipo, che fu il preludio poi all’annata del ’94, quando finii numero due del mondo giovanile facendo finale al Roland Garros, semifinale a Wimbledon e finale al Bonfiglio di Milano. Il passaggio a Pro non è così semplice, in quanto presenta spesso delle insidie: l’esperienza e il doversi rialzare dalle sconfitte, quindi una grande resilienza, cosa che io penso di aver avuto molto, in quanto ho sofferto per due anni prima di iniziare ad avere dei buoni risultati anche a livello internazionale; nel ’98 feci le qualificazioni al Foro Italico, superandole e trovando poi al primo turno l’allora numero 7 del ranking, Alberto Berasategui, dal quale persi lottando. Superai anche le qualificazioni agli US Open, vinsi il primo turnoe uscii al secondo per mano di Marcelo Rios in quattro set, il quale, a suo tempo, era numero 2 del mondo.
– Hai vestito la maglia di Coppa Davis dell’Italia per diversi anni. Quali sono i ricordi più belli legati all’aver giocato per il tuo Paese?
– La Coppa Davis per me rimane nel cuore: è un qualcosa che ti segna. Nel mio caso ha dei ricordi belli e meno belli. Tra i ricordi belli, la vittoria su Nadal e Lopez in doppio, molto sentita a livello emozionale da parte mia e da parte del pubblico. E poi ci sono anche le amare delusioni, come la sconfitta in Zimbabwe. Rimane il fatto che io mi sento molto patriottico e la Coppa Davis mi ha dato tante emozioni. Fino a quest’anno ho fatto l’Assistant Coach di Corrado Barazzutti. Speravo di diventare Capitano di Coppa Davis, però è arrivato prima di me Filippo Volandri, un altro grande campione che potrà fare molto bene in panchina e al quale auguro il meglio. Attenderò comunque una proposta da parte della Federazione per rimanere nella cerchia dei tecnici federali, o per dare il mio supporto alla stessa Nazionale di Coppa Davis con Volandri. In ogni caso, resto un uomo di Federazione, che ha riconoscenza nei confronti della FIT per quanto di buono ha fatto in questi anni e per quanto di buono continuerà a fare.
La squadra di Coppa Davis dell’Italia con Fognini, Bolelli, Sonego, Travaglia, Mager e lo staff tecnico composto da Corrado Barazzutti, Giorgio Galimberti e gli altri componenti del team
– E i successi più significativi della tua carriera?
– I successi più significativi della mia carriera sono sicuramente la vittoria a Roma agli Internazionali BNL d’Italia contro Alex Corretja che, a suo tempo, era numero 9 del mondo e fu una bella impresa sul Pietrangeli, sentita tantissimo da me e dal pubblico. Ricordo che iniziai la partita con l’impianto che non aveva nemmeno la metà degli spettatori. Ma, dopo i primi 3 games, era gremito di persone e, in più, stavo anche vincendo. Vinsi in tre set una partita lottatissima e quello fu un grande risultato. Un’altra partita molto bella fu a Amersfoort, ad Amsterdam, contro Martin Verkerk che nel 2003 fece finale al Roland Garros. Quando lo incontrai in torneo, lui era il tennista numero uno in Olanda, giocava in casa e aveva naturalmente tutto il pubblico dalla sua parte. Non avevo particolari aspettative in quella partita: giocai molto liberoe vinsi contro il numero 14 del mondo in quella che, per me, fu una grandissima impresa ed emozione.
– Dopo il ritiro dal professionismo, ti sei cimentato nelle telecronache dei match su Sky Sport, occupandoti del commento tecnico durante gli incontri. Com’è avvenuto il passaggio dall’essere protagonista in campo al parlare di tennis in diretta? È stato immediato e naturale rivolgerti ad un pubblico di ascoltatori le prime volte che ti sei trovato in cabina di commento?
– Nel 2007, Stefano Meloccaro di Sky mi propose di fare un test nella vecchia sede di Sky Sport. Andai durante il periodo dei tornei estivi di Cincinnati e Montreal, in notturna. Devo dire che, già dalla prima volta, mi divertii molto a fare le telecronache e mi sentii a mio agio, anche grazie alla capacità di Stefano Meloccaro che, a suo tempo, faceva ancora telecronaca. Adesso, invece, come sapete, lavora nello studio televisivo e si occupa di tutt’altro. Anche lui ha avuto una grande crescita professionale. Cominciai con Sky dal 2007, fino al 2015. Poi, nel 2015, mi allontanai dalla televisione perché dovetti andare a Wimbledon, in quanto ero allenatore nello staff di Simone Bolelli e, quindi, sia lì che agli US Open ero impegnato con il giocatore. Da quel momento presi una decisione, ovvero di rimanere soltanto con SuperTennis, canale 64 del digitale terrestre, per il quale cominciai a lavorare nel 2009, data del suo esordio. Ad oggi, sono ancora legato a SuperTennis tramite una collaborazione che va avanti da tanti anni e della quale sono molto fiero, perché è una emittente che mi ha dato tanto spazio, mi ha affidato la conduzione di Circolando e dello studio di continuità degli Internazionali BNL d’Italia, probabilmente il più grande palcoscenico tennistico del nostro Paese. La televisione mi piace molto e lì mi sento a mio agio.
Giorgio Galimberti, che è stato coach di Simone Bolelli nel 2015 a Wimbledon e agli US Open, segue il giocatore durante un allenamento
– In seguito all’esperienza a Sky, sei entrato a far parte del Cast di SuperTennis come commentatore tecnico ed opinionista. Tra le altre attività, hai condotto il programma “Circolando”, un itinerario che ti ha visto impegnato nei circoli sportivi di diverse regioni italiane. Cosa si scopre da una esperienza come la tua, fatta di viaggi e incontri con vari personaggi nel mondo del tennis?
– L’esperienza di Circolando è stata basilare sotto tanti punti di vista, in particolare nell’offrirmi la possibilità di valutare i pro e i contro di qualsiasi aspetto a livello “Club”. Quanto appena detto, si spiega attraverso la mia attività: sto costruendo un centro a Cattolica abbastanza articolato che include campi da tennis, padel, palestra e un centro fisioterapico. E questo mio grandissimo investimento e impegno che ho preso, devo dire che trova anche molto conforto e supporto dalle esperienze fatte visitando tutti gli altri circoli, avendoli analizzati, avendo ascoltato i presidenti e gli addetti ai lavori. Di conseguenza, anche io, nella mia realtà imprenditoriale, ho fatto delle scelte che sono state influenzate da tutte queste conoscenze che ho avuto negli anni grazie a Circolando: avrò ormai visitato almeno 60-70 circoli tra i più belli d’Italia tra cui il Parioli, a Roma, il Bonacossa di Milano e La Stampa, a Torino. E da questi circoli ho cercato di trarre gli aspetti positivi, provando a riproporli nel mio Club. L’ho fatto sia con Circolando, sia girando per l’Europa e per il mondo, visitando i circoli negli eventi sportivi ai quali partecipo con i miei giocatori.
– Sei il Titolare della Galimberti Tennis Academy. Quali sono gli elementi fondamentali per far funzionare al meglio una Accademia di tennis?
– La mia struttura, che inizialmente si trovava a San Marino, si è spostata in Italia a Cattolica, città in provincia di Rimini. E sicuramente è stata una grande esperienza, un grande orgoglio perché da zero, in un centro che faceva poca attività agonistica, sono riuscito – grazie a una buona struttura, alle mie capacità e alle capacità dei miei collaboratori che sono aumentati anno dopo anno – a creare un grande appeal a livello nazionale ed internazionale. Abbiamo avuto giocatori dall’Ungheria, Ucraina, Francia e Australia, da molte parti del mondo; e questa è sicuramente una grande soddisfazione: l’Accademia è sempre in crescita ed è legata alla mia figura, alla mia persona. Non a caso, ora che ci siamo spostati a Cattolica, l’Accademia è esplosa ancor di più per la facilità del raggiungimento della location, per la bellezza di Cattolica, città turistica sul mare. E anche per la vicinanza e la fruibilità del centro da parte mia e dei miei collaboratori, elementi che ci consentono di avere una buona qualità della vita. Credo che, di base, una Accademia di tennis sia fatta dalle persone, aldilà della struttura che può essere più o meno bella ma, in assenza di queste, anche il centro più bello al mondo si ridurrebbe al nulla, in quanto il contenitore viene dopo le persone. Credo che in questo momento io abbia preparatori atletici e allenatori dei quali mi posso fidare, preparati, appassionati, dei lavoratori instancabili che amano quello che fanno. Questo è il grandissimo segreto che, purtroppo, viene spesso lasciato da parte, vendendo fumo, vendendo soltanto quella che può essere considerata “la facciata” o, magari, il fatto che ci sia un grande giocatore che si allena in quel centro. Penso semplicemente che non si diventi forti guardando un giocatore che si allena, ma allenandosi.
Giorgio Galimberti con i suoi collaboratori e allievi alla Galimberti Tennis Academy di Cattolica
– Parlando di abbigliamento tecnico sportivo, ASICS è un marchio di eccellenza per tanti sport, compreso il tennis. So che hai un rapporto speciale con questo brand. In cosa si distingue una scarpa ASICS da altre marche?
–È dal 1994 che uso scarpe ASICS e penso, in tutti gli anni da professionista e post carriera, di non aver mai messo altro ai piedi se non ASICS. Io sono un fanatico di questa marca e non smetterò mai di dire che è la scelta migliore che un tennista possa fare, così come un runner. Lo stesso discorso vale per l’abbigliamento, per il quale ora ASICS ha scelto di produrre solo la prima linea, quindi materiale di qualità con prodotti tecnici di altissimo livello.
– E, per concludere, una domanda di attualità. Da un po’ di anni a questa parte il tennis italiano, soprattutto nel maschile, è riaffiorato con tanti nuovi talenti all’orizzonte. Abbiamo non pochi giocatori nei primi 100 del mondo: Berrettini, Fognini, Sinner, Sonego, Travaglia, Caruso, Mager, Cecchinato, Seppi. A cosa è dovuta questa crescita prorompente del movimento?
– Il discorso è ciclico. L’Italia è una Nazione che tennisticamente è sempre stata all’avanguardia; ci sono stati anche dei periodi bui, come nei primi anni 2000, quando io, oltretutto, ne ho giovato per poter far parte della squadra di Coppa Davis. In una Nazione come l’Italia di oggi, il Galimberti dell’epoca non avrebbe posto in Coppa Davis, ma in quegli anni invece sì. Negli ultimi tempi abbiamo un movimento in forte crescita. E credo che questo dipenda da un insieme di cose: un ottimo lavoro federale del settore tecnico; un ottimo lavoro delle accademie private che hanno tirato fuori tanti giocatori; la presenza di maestri competenti a livello nazionale. Io credo che l’Italia di oggi possa essere vista un po’ come la Spagna di qualche anno fa; un ambiente preparato di professionisti con competenze di altissimo livello. I maestri italiani, vent’anni fa, erano bistrattati. Tutti parlavano della Spagna: “Scappiamo in Spagna se vogliamo diventare forti”. Questo ora non avviene più perché abbiamo coach di livello nazionale e internazionaleche seguono da vicino i giocatori. È ovvio che, con un bacino importante come le scuole tennis italiane, prima o poi qualcosa venga fuori. In questo momento siamo forse la Nazione con più giocatori nei primi 100 del mondo o tra le migliori al mondo. Manca, forse, il top player nei primi 5. Nel momento in cui arriverà anche quello, credo che l’Italia non sarà seconda a nessuno o, se non altro, sarà tra le Nazioni leader di questo sport nei prossimi anni, tenendo conto anche dell’età giovane dei nostri giocatori.
– Giocatore, Maestro Nazionale e Fiduciario della FIT. Partiamo dalle origini: come ti sei avvicinato al tennis per la prima volta?
– Ormai parliamo di oltre 40 anni fa. All’età di 10 anni ricordo di aver sostituito un mio amico che giocava con il papà. In quella occasione impugnai la racchetta per la prima volta e riuscii a prendere sempre la palla. Da lì è nata una passione che coltivo ancora oggi e che cresce giorno dopo giorno.
– Giocando a tennis per tanti anni e classificandoti, hai deciso poi di diventare Istruttore. Quale percorso hai intrapreso per arrivare ad essere Maestro Nazionale?
– Avevo circa 16 anni quando Enrico Biancotto, uno dei miei Maestri che ricordo con tanto affetto e che purtroppo non c’è più, mi chiese di fare delle sostituzioni con i bimbi più piccoli. Cominciai così: mi sentivo a mio agio a fare il Maestro e, da lì a poco tempo, capii che sarebbe diventato il mio lavoro. Ormai è dal 1989 che svolgo quest’attività a tempo pieno e ogni giorno non è mai uguale all’altro. Ho seguito tutto il percorso da Istruttore di primo e secondo grado, per poi diventare, nel 2001, Maestro Nazionale per la Federazione Italiana Tennis. Sono inoltre Professional PTR (acronimo di Professional Tennis Registry) da oltre 20 anni, una Associazione di insegnanti di tennis internazionale molto interessante e produttiva per noi Maestri. Dal 2015, sono Fiduciario per la Federazione Italiana Tennis.
La mia foto con il Maestro e Fiduciario della FIT, Mauro Caruso, al Forum Sport Center di Roma
– Che tipo di programmazione è necessaria per organizzare nel modo migliore le attività di una scuola tennis?
– La programmazione è molto importante per far crescere una scuola tennis; è un aspetto che meriterebbe un lungo discorso. Il nostro programma viene diviso in: annuale, con obiettivi generali che vengono condivisi anche con i genitori; mensile e settimanale, con obiettivi sempre più specifici. Gli allievi vengono suddivisi per fascia di età e capacità, in categorie denominate secondo il Sistema Italia: delfino, cerbiatto, coccodrillo e canguro. Inoltre, la programmazione giornaliera di una scuola tennis si basa sul Game Based Approach, un metodo che prevede una situazione iniziale aperta, più tattica, seguita da una situazione chiusa più tecnica, dove si cerca di individualizzare l’allenamento per ogni allievo. L’ultima fase del Game Based Approach consiste in una nuova situazione aperta, dove vengono analizzate e migliorate eventuali problematiche sorte nell’allenamento. Infine, parte integrante della programmazione sono le amichevoli tra i circoli e tutte quelle attività promozionali che aiutano gli allievi a sviluppare un senso di appartenenza alla scuola tennis.
– Ci sono Maestri che investono sul proprio tennis senza però affacciarsi in altre realtà e venire a contatto con persone nuove. Rimangono nel proprio “orto”, consapevoli del fatto che conoscere altri Istruttori non sia indispensabile per la propria crescita professionale. Invece tu sei l’esempio di come un insegnante di tennis possa arricchirsi ed arricchire gli altri attraverso le pubbliche relazioni. Quanto ritieni sia importante rimanere in contatto con i Maestri e ampliare la rete di conoscenze?
– Direi che è fondamentale arricchirsi e aggiornarsi sempre, anche attraverso il continuo confronto con gli altri Maestri, qualora sia possibile. Ma anche gli stessi allievi possono insegnarci molto. Il lavoro di squadra è importante: integra le capacità di ognuno, in modo da raggiungere obiettivi condivisi e permettere la crescita tennistica degli allievi. La sinergia tra i Maestri aiuta inoltre a risolvere problematiche e superare ostacoli che possono emergere nella quotidianità di una scuola tennis.
– Arriviamo al presente. Oltre a fare lezioni, gestire i corsi e la scuola tennis del Forum Sport Center, sei Fiduciario presso l’Istituto di Formazione Roberto Lombardi. In cosa consiste questa figura professionale?
– In Italia siamo 155 Fiduciari; ci chiamano “talent scout” perché cerchiamo i nuovi talenti tra gli under 8-9-10 che poi ogni anno partecipano alla Coppa delle Province, di cui Roma è campione nazionale in carica. Dobbiamo organizzare i raduni degli stessi under, chiamati Junior Club Italia, per i campioni di domani. Ci occupiamo del riconoscimento di tutte le scuole tennis e di promuovere i progetti federali, quali il FIT Junior Program e i Campionati Promo, sistemi volti a stimolare l’attività degli allievi non agonisti all’interno delle scuole tennis. Inoltre la FIT ha introdotto, in collaborazione con la FITeT e la FIPT, il progetto “Racchette in Classe” attraverso il quale promuoviamo la pratica del tennis nelle scuole elementari. Noi Fiduciari, in sostanza, siamo l’anello di congiunzione tra i Maestri, le Scuole Tennis e la Federazione Italiana Tennis.
– E, infine, i progetti da qui ai prossimi anni nel mondo del tennis. Sei alla ricerca di nuovi obiettivi?
– In questo momento così particolare l’attenzione è rivolta principalmente al benessere psicofisico. Dal punto di vista professionale mi auguro di prolungare la mia esperienza al Forum Sport Center, in modo da contribuire, insieme alla mia équipe, alla crescita tennistica dei sempre più numerosi allievi. Il mondo del tennis cresce ogni anno sempre di più e, per un Maestro come me, è importante far divertire e far avvicinare sempre più persone a questo bellissimo sport.