Esclusiva: intervista a Tonino Zugarelli

Antonio Zugarelli, conosciuto da tutti come “Tonino”, ha dato tanto al tennis italiano: è stato numero due d’Italia nel 1973 e ha raggiunto la ventiquattresima posizione del ranking mondiale nel 1977. Vincitore della Coppa Davis nel 1976, insieme a Adriano Panatta, Corrado Barazzutti e Paolo Bertolucci, e finalista degli Internazionali di Roma nel 1977 – Zugarelli vanta due tornei ATP Tour all’attivo: Bastad in singolare e Bruxelles in doppio.

La mia foto con Tonino Zugarelli al Bar del Tennis del Foro Italico


– A che età hai scoperto il tennis? È stato il tuo primo sport?

– Il tennis non è stato il mio primo sport perché all’epoca, negli anni ’50, i bambini sceglievano il calcio. Il tennis, per me, è stata quasi un’esigenza, perché nasco come un giocatore che ha fatto, prima di tutto, il raccattapalle. Provengo da una famiglia povera, perciò c’era bisogno di aiutare i miei genitori con il lavoro di raccattapalle, nei circoli sul Lungotevere, a Roma. Il tennis era uno sport d’élite, e questo era uno dei motivi per cui, dopo aver raccolto le palline per un’ora, speravo di ricevere qualche mancia. Mancia che sarebbe servita per dare una mano alla mia famiglia.

– La storia di Tonino Zugarelli sui campi da tennis è iniziata con Mario Belardinelli, all’epoca figura di spicco della Federazione Italiana Tennis e talent scout di giovani tennisti. Puoi raccontare ai nostri lettori cosa ha notato Belardinelli nel tuo gioco e quali ricordi conservi di lui ancora oggi?

– Mario Belardinelli ha rivestito una parte importantissima nella mia vita e nella mia carriera di tennista. Però si parla già di quando avevo 20 anni, periodo nel quale fui convocato al Centro di Preparazione Olimpica di Formia. Facendo un passo indietro, quando avevo circa 15 anni, ci sono stati degli eventi che mi hanno dirottato dal calcio al tennis in modo definitivo. Belardinelli non è stata, quindi, l’unica figura importante nella mia crescita di giocatore, ma ve ne sono state altre prima, risultate per me determinanti nella scelta di fare il tennista. Dopo di queste, è avvenuto il passaggio al professionismo ed ecco lì che Belardinelli ha ricoperto la parte relativa alla formazione.
Riguardo ai ricordi che ho di lui… posso dirti che era un professionista attento a predisporre mentalmente i giocatori ed aveva la capacità di entrare dentro la loro testa, a capirli e a plasmarli. Aveva tutti i requisiti per aiutarmi a raggiungere i miei obiettivi.

– Chi sono stati i tennisti italiani, della tua generazione, con i quali hai condiviso i momenti più belli della tua vita in campo? Quale rapporto umano si è instaurato con ognuno di loro?

– Ho vissuto la mia vita con diversi giocatori. Nell’ambito della Coppa Davis, ho passato tanto tempo insieme a Adriano Panatta, Corrado Barazzutti e Paolo Bertolucci. Però ho instaurato un’amicizia più profonda con altri tennisti, fuori dal contesto della Nazionale: per fare dei nomi, direi Vincenzo Franchitti e Ezio Di Matteo, tra tutti.
Con gli altri tre giocatori della Coppa Davis, abbiamo condiviso vittorie e sconfitte insieme. Con loro c’era sicuramente un rispetto reciproco. Ognuno aveva la capacità di stare al suo posto e di portare il suo apporto alla Nazionale, elementi che ci hanno consentito di essere coesi. Fermo restando che, per me, l’amicizia è un’altra cosa: Franchitti e Di Matteo lo sono stati nel vero senso del termine.

I protagonisti del film “Una squadra”, vincitori della Coppa Davis nel 1976 in Cile, insieme al produttore cinematografico Domenico Procacci

– Sei stato campione dell’insalatiera nel 1976 in Cile, nella squadra dei “quattro moschettieri” con Panatta, Barazzutti e Bertolucci. Il Capitano non giocatore, della formazione azzurra, era Nicola Pietrangeli, con il quale c’erano delle discrepanze. Cosa successe tra di voi negli anni ’70?

– In Coppa Davis, dall’inizio alla fine, ci sono sempre stati una grande armonia, un rispetto reciproco e un equilibrio tra i giocatori, elementi che ci hanno portato ad ottenere delle vittorie che, per noi, ancora oggi, rimangono intramontabili. I problemi che ho avuto sono nati con l’avvento del Capitano Nicola Pietrangeli, non perché non mi avesse fatto giocare, ma per una mancata considerazione da parte sua, nei miei confronti, come giocatore. Mi vedeva più come “un tappabuchi”, impiegabile nella squadra solo nei momenti di necessità. Avvertivo, quindi, che non avesse una grande stima di me, né come persona, né come giocatore. E questo era il motivo per cui mi ribellavo quando lui non rispettava le regole di convivenza. Ma non ci sono state mai, da parte mia, delle polemiche sull’esclusione o sul non avermi fatto giocare in certi incontri.

– Cosa ne pensi della nuova formula della Coppa Davis e dei risultati fin qui conseguiti dall’attuale movimento di tennisti italiani?

– La nostra Coppa Davis era strutturata in un modo completamente diverso rispetto a quella attuale. Diciamo che è rimasto soltanto il nome di quella che era la vecchia Coppa Davis, ma questo non ne toglie il prestigio e la risonanza. Anzi, devo dire che, nel 2023, il successo ottenuto dai ragazzi capitanati da Filippo Volandri, ha rivalutato la vecchia e la nuova formula. Anche se sono cambiate molte cose, i nostri tennisti italiani hanno dimostrato di tenerci alla Coppa Davis e ai colori della maglia azzurra. Prendiamo Sinner, che ha contribuito in modo importante alla vittoria dell’Italia. Ed è proprio grazie all’impegno di questi ragazzi, che hanno profuso tutte le energie per vincere, che è stata rivalutata anche la nostra Coppa Davis. Se loro non l’avessero vinta e il mondo non ne avesse parlato così ampiamente in televisione e sui social, a noi del ’76 in Cile chi ci avrebbe ricordati? Se la squadra attuale è riuscita in questa impresa, anche la squadra dell’epoca è degna della stessa considerazione. Quindi, in un certo senso, ne abbiamo avuto beneficio anche io, Adriano, Corrado e Paolo, oltre all’allora Capitano. Dopo 47 anni, è stata una gratificazione che abbiamo avuto, grazie a loro. E questo aspetto penso sia da mettere in risalto.

Nel 1982 è terminata la tua carriera da tennista professionista. In seguito, purtroppo, si è sentito parlare sempre meno di Tonino Zugarelli, pur rimanendo uno dei grandi protagonisti del tennis italiano. Facendo un breve riassunto in ordine cronologico, di cosa ti sei occupato da dopo il tuo ritiro ad oggi?

C’è da fare una premessa importante. Il professionismo, nel tennis, è nato intorno agli anni ’74-’75. Vuol dire che, prima, il tennis era dilettantismo. Non c’erano montepremi che potessero spingere i giocatori a disputare tornei lontani dal proprio Paese. Prendo, come esempio, noi quattro della Coppa Davis: mi risulta che Barazzutti sia andato solo una volta a giocare gli US Open. Anche in Australia non si andava, in quanto si dovevano spendere troppi soldi di tasca propria per provare a vincere solo una coppa. Quando mi sono ritirato, il circuito internazionale ha iniziato ad investire economicamente di più nei tornei, ma non erano comunque dei montepremi paragonabili a quelli di oggi.
Il tennis non è come nel calcio dove, quando smetti di giocare e superi l’esame di allenatore, ti occupi di professionismo, se non di Serie A almeno di Serie B. Quindi, quando si terminava la carriera di giocatore, le strade erano due: o si lavorava nella Federazione, o si era costretti ad entrare in un circolo per fare delle lezioni ed andare avanti.
Preciso che la mia carriera non mi ha arricchito, per cui, appena mi sono ritirato dal tennis giocato, ho dovuto cercare un lavoro non avendo avuto la possibilità di collaborare con la Federazione. A quel punto, ho iniziato a pensare di cosa occuparmi nel dopo tennis: decisi di investire i risparmi, che avevo da parte, in un circolo di tennis e dovetti prendere anche un mutuo. Purtroppo, però, per varie vicissitudini, questo progetto non andò per il verso giusto.
Successivamente, venni chiamato dalla Federazione e questa collaborazione durò 5 anni. Oggi, superati i 70 anni, ho trovato un po’ di stabilità nel lavoro e, grazie al Foro Italico, sono circa 7-8 anni che sto lavorando in modo continuativo.

– Attualmente ricopri il ruolo di Direttore Tecnico della scuola tennis del Foro Italico. In cosa consiste la tua attività in un palcoscenico così prestigioso a livello internazionale, come quello del Foro, che ogni anno ospita gli Internazionali di Roma?

– Il Foro Italico è una location di prestigio, nella quale faccio il coordinatore della scuola tennis. Abbiamo, circa, 170 bambini dai 6 ai 15 anni e, qui, i maestri e i preparatori atletici sono tutti all’altezza di lavorare in una scuola così importante. Sono orgoglioso di come stanno andando le cose e spero di poter dare ancora il mio apporto per qualche altro anno.

– E, infine, vorrei chiederti se vedi all’orizzonte, fra i tuoi allievi, qualcuno che abbia i requisiti per diventare una promessa del tennis italiano.

– Il Foro Italico è una scuola di avviamento: si tratta di allievi piccoli che iniziano a giocare a tennis e dei quali ci occupiamo della formazione fisica e tecnica. Nel momento in cui noto dei ragazzi con delle qualità, sono io a dirgli di scegliere dei circoli con un’attività agonistica strutturata. Al Foro Italico ce ne sono diversi che hanno delle caratteristiche in prospettiva interessanti, ma qui non le svilupperanno, in quanto noi li avviamo al tennis, dando loro una impostazione tecnica.

Federico Bazan © produzione riservata

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